Con l’inflazione che veleggia intorno al 7% e la prospettiva di ulteriori aumenti delle merci importate non ancora scaricati sui prezzi finali, torna seriamente in campo la minaccia di una ripresa delle rivendicazioni salariali per tutelare il potere di acquisto dei lavoratori. Un’evoluzione che viene auspicata a più riprese dal Segretario generale della Cgil Maurizio Landini.



Lo scenario di una rincorsa dei prezzi e dei salari rischia di compromettere seriamente la competitività delle imprese italiane, il valore dei risparmi delle famiglie e il potere d’acquisto dei lavoratori meno tutelati. Come possibile alternativa viene evocata da una parte dei sindacati e delle associazioni datoriali una riedizione del Patto sociale sottoscritto nel 1993 dal Governo Ciampi e dalle rappresentanze dei lavoratori e dei datori di lavoro per la finalità di contrastare la crescita dei prezzi, con il concorso di interventi dello Stato rivolti a contenere gli aumenti delle tariffe dei servizi pubblici e delle parti sociali per mantenere gli incrementi dei salari previsti dai rinnovi dei contratti collettivi nazionali di settore nell’ambito di un tasso di inflazione programmata inferiore a quello tendenziale, con la garanzia di adeguare successivamente i salari contrattuali per compensare gli eventuali scostamenti con la dinamica reale dei prezzi finali. 



Il modello, teorizzato dal compianto prof. Ezio Tarantelli, assassinato per questo motivo dalle Brigate Rosse, era stato sperimentato con buoni risultati all’epoca del Governo Craxi nella prima metà degli anni ’80, nonostante la dura opposizione del Partito comunista e la convocazione di un referendum abrogativo bocciato dagli elettori. Con il Patto sociale sottoscritto dal Governo Ciampi e dalle parti sociali, a seguito della soppressione della scala mobile intervenuta nel 1992, il nuovo modello veniva assunto in modo strutturale nell’ambito della riforma del sistema della contrattazione collettiva, e successivamente perfezionato con l’introduzione dell’ Ipca (Indicatore dei prezzi al consumo armonizzato a livello europeo) per la definizione degli incrementi dei minimi salariali dei contratti collettivi nazionali di settore sulla base dell’inflazione programmata al netto dei costi dell’energia importata. 



Quest’ultimo aspetto rappresenta il vero motivo del contendere, perché la principale componente della crescita dei prezzi (4,5% sul 6,8% dell’ultima rilevazione Istat) è relativa all’energia e l’impossibilità di recuperare questi importi comporterebbe in via di fatto una perdita del potere di acquisto dei salari.

Negli anni precedenti la pandemia Covid, il sistema ha funzionato discretamente, con aumenti salariali reali superiori all’inflazione finale rimasta al di sotto delle previsioni originali anche per l’andamento decrescente dei prezzi delle fonti energetiche. Nelle condizioni attuali questo sistema viene messo in crisi dalla brusca inversione della tendenza, per la difficoltà di fare delle previsioni realistiche di medio periodo sull’andamento dei prezzi e per i tempi lunghi dell’eventuale recupero degli scostamenti tra l’inflazione programmata e quella reale.

L’idea di disdettare il Patto della fabbrica, l’ultimo accordo sottoscritto tra le confederazioni sindacali e quelle dei datori di lavoro che fissa le regole per il sistema di contrattazione, che serpeggia in una parte rilevante dei sindacati, rischia paradossalmente di generare un vuoto di regolazione e di complicare le condizioni per il rinnovo dei contratti nazionali per circa 6,4 milioni di lavoratori, sul complesso dei 14 milioni, che operano nei settori privati e che sono in attesa del rinnovo. Ma con tutta evidenza il problema riguarda anche i lavoratori appartenenti ai settori che hanno rinnovato i contratti sulla base di una previsione contenuta, mediamente inferiore al 2% annuo, del tasso di inflazione. Tra i contratti da rinnovare, va considerata anche la componente dei lavoratori pubblici, circa 3,2 milioni, che comporta forti incrementi della spesa pubblica non coperti nelle previsioni di bilancio (almeno 8 miliardi di euro se si tiene conto del tasso di inflazione previsto nel Documento di economia e finanza recentemente approvato dal Consiglio dei ministri).

Quasi tutti i potenziali rinnovi riguardano le attività dei servizi, a partire dal commercio, che non hanno ancora recuperato i livelli di attività precedenti la crisi Covid. D’altra parte appare difficile che le associazioni degli imprenditori possano farsi carico a cuor leggero di un aumento dei costi, ulteriore rispetto a quelli dell’energia, senza trasferirli sui prezzi finali, ma rischiando nel contempo di perdere quote di mercato e posti di lavoro. Per la stragrande parte delle imprese, come per i lavoratori, l’aumento del petrolio e del gas rappresenta una sorta di tassa trasferita dai fornitori di altri Paesi che deprime la redditività di buona parte del sistema produttivo al netto delle imprese italiane che producono e distribuiscono energia.

A queste condizioni, la necessità di contemperare la tenuta del sistema produttivo e la tutela dei redditi dei lavoratori richiede oggettivamente l’intervento del Governo per rendere sostenibili i costi del lavoro, rilanciando la formula del Patto sociale e della politica dei redditi accantonata nel corso degli anni 2000. Ma questa riproposizione non può trascurare le notevoli differenze del contesto, e degli attori, che sono intervenute rispetto alla prima metà degli anni ’90.

La prima differenza è data dalla rigidità delle politiche monetarie, che dipendono dalle decisioni della Bce, e dalla conseguente impossibilità di svalutare la moneta, per consentire un aumento dei salari su livelli di inflazione superiori alla media europea, data la particolare dipendenza dell’Italia dalle fonti energetiche importate, se non si vuole rischiare un’ulteriore perdita di competitività delle nostre imprese e di posti di lavoro, in aggiunta alla svalutazione dei redditi e dei risparmi. La seconda differenza è legata all’estrema complessità dei sistemi produttivi e del mercato del lavoro che richiede risposte articolate in relazione alle specificità delle organizzazioni del lavoro e dei livelli di produttività.

Il contenimento dei costi degli aumenti salariali, combinata con gli interventi messi in campo per contenere i prezzi dell’energia, può essere effettuato con due modalità: una riduzione del cuneo fiscale tramite un intervento dello Stato e un aumento della produttività da ottenere nell’ambito delle riorganizzazioni produttive e da incrementi salariali legati ai risultati. Il Presidente della Confindustria Bonomi ha ipotizzato un intervento di 16 miliardi da destinare per la maggior parte a finanziare l’alleggerimento dei prelievi contributivi sui salari. Per finanziare la riduzione del costo del lavoro potrebbe essere ulteriormente aumentata la quota del prelievo fiscale sugli extraprofitti delle aziende che intermediano la fornitura di energia, stimati in circa 40 miliardi, e utilizzando i proventi aggiuntivi, legati all’incremento dell’Iva sui combustibili, introitati dallo Stato.

Sull’esigenza di ridurre gli oneri sul costo del lavoro si registra una forte convergenza tra le parti sociali (un vero peccato che sia mancata nell’occasione della riforma fiscale sprecando 7 miliardi di risorse pubbliche impegnate). Sull’esigenza di legare l’incremento dei salari ai risultati e alla crescita della produttività che risulta stagnante o addirittura negativa per una grande parte del sistema produttivo e dei servizi, l’argomento non viene nemmeno preso in considerazione.

La difficoltà di programmare in modo realistico l’inflazione, e l’esigenza di conguagliare le differenze in tempi ridotti rispetto al triennio della vigenza dei contratti collettivi nazionali, potrebbe essere riscontrata con l’introduzione temporanea di un sistema di verifiche annuali sugli scostamenti e l’erogazione dei conguagli durante la vigenza contrattuale. Una soluzione di questo tipo è stata di recente ipotizzata anche dalle organizzazioni sindacali tedesche con l’erogazione di una tantum salariali annuali per sostenere, anche in via provvisoria, la tenuta dei salari reali.

Le implicazioni economiche dello scenario bellico e delle tensioni internazionali comportano un impatto asimmetrico sulle imprese e un’accelerazione delle riorganizzazioni aziendali. Investire sulla crescita delle competenze dei lavoratori e per rendere sostenibili le transizioni lavorative delle persone che perdono il lavoro rappresentano delle priorità che non possono essere delegate ai Centri per l’impiego, ma che devono essere assunte in presa diretta dalle parti sociali. Ad esempio: con l’organizzazione di liste di disponibilità da incrociare territorialmente con la domanda delle imprese; per aumentare i livelli di partecipazione dei lavoratori nei programmi di aggiornamento professionale e per facilitare l’inserimento lavorativo dei giovani in uscita dai percorsi scolastici e universitari con il concorso degli enti bilaterali.

Il tema di come ridurre la difficoltà di reperire i fabbisogni professionali delle imprese, che risultano difficili per oltre il 40% dei profili richiesti, rappresenta un’emergenza che deve essere affrontata in modo radicale, mettendo un limite all’attuale spreco di risorse pubbliche destinate ad alimentare la massa dei sussidi assistenziali che disincentivano la ricerca di un lavoro da parte dei beneficiari.

Se non ora quando? Rispondere a questa domanda significa spiegare il perché nonostante la nostra comunità sia chiamata ad affrontare delle prove destinate a segnare il nostro futuro ci sia una parte consistente della classe dirigente che pensa di risolvere i problemi mungendo la rachitica mucca rappresentata dallo Stato, evitando accuratamente di assumere le proprie responsabilità. Anche al costo di taroccare la lettura dei problemi, pur di giustificare i propri comportamenti, come avvenuto nell’occasione della proclamazione dello sciopero generale sulla riforma del fisco.

Di fronte a questo scollamento, e alla necessità di ricostruire le condizioni per una ripresa del dialogo sociale, il nostro ministro del Lavoro convoca le parti sociali per proporre l’introduzione di un salario minimo e per via legale e introdurre nuovi vincoli per le imprese per l’assunzione e la gestione del personale. Se il principio di realtà sfugge a coloro che hanno la responsabilità di governare, l’ipotesi di un nuovo Patto sociale, per quanto necessaria, diventa improbabile.

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