La crescita dell‘inflazione a due cifre, pur registrando un rallentamento nel mese di dicembre u.s. si assesta su valori largamente superiori alla media europea (11,6% rispetto al 9,2%) con un potenziale effetto di trascinamento di almeno 5 punti per l’anno che è appena iniziato. Due terzi dell’incremento è attribuibile alla componente dei prezzi dell’energia importata, il rimanente al trascinamento di questo aumento sul resto dei prodotti e dei servizi che non ha ancora esaurito i suoi effetti.
Un segnale in questa direzione è già avvenuto in relazione al mancato rinnovo dello sconto sulle accise dei carburanti più volte rinnovato con i 4 decreti aiuti nel corso del 2022 e dell’aggiornamento al rialzo delle tariffe del gas nel mercato tutelato.
Per il 2023 le previsioni restano orientate verso una graduale discesa dei prezzi finali favorita da una riduzione dei costi medi di quelli relativi approvvigionamento dell’energia, da una contrazione della domanda di beni finali, dalle iniziative delle imprese e delle famiglie mirate a razionalizzare i costi.
La previsione di un’inflazione superiore alla media europea, e in particolare a quella delle più grandi economie nazionali, anche per l’anno in corso pone seri problemi per la sostenibilità delle politiche sinora adottate per contenere l’impatto dell’aumento dei prezzi sulla produzione e sull’occupazione. L’erogazione degli aiuti statali, oltre 70 miliardi di euro per l’intero anno trascorso, è stata resa possibile da un tasso di crescita dell’economia favorito da tre fattori: l’impatto stesso di questi aiuti, poco al di sotto degli aumenti dei costi energetici stimati su circa 90 miliardi di euro; l’utilizzo di una parte dei risparmi accumulati nel corso della pandemia (circa 1,9 punti equivalenti alla crescita dei consumi delle famiglie secondo un recente indagine dell’Istat); la tenuta delle esportazioni, dei comparti manifatturieri, delle costruzioni e la ripresa del turismo. A questi andrebbe aggiunto un altro fattore, la gestione accorta del personale da parte delle imprese, in particolare quelle industriali, con un utilizzo temporaneo degli ammortizzatori sociali sulla base delle esperienze accumulate nel corso dei lockdown della pandemia Covid.
La possibilità di finanziare gli aiuti con le maggiori entrate fiscali derivanti da una crescita economica superiore alle previsioni si è progressivamente esaurita. I nuovi aiuti disposti con la Legge di bilancio vengono infatti finanziati con un aumento del deficit per un tempo limitato con l’auspicio, non del tutto infondato, di un ribasso dei prezzi delle energie fossili nei prossimi mesi.
Sul piano pratico, al netto della riduzione del cuneo fiscale (la riduzione dei contributi previdenziali del 3% sui salari fino a 25 mila euro anno e del 2% per la fascia fino a 35 mila) l’onere di sostenere il potere d’acquisto delle retribuzioni viene di fatto trasferito sulla contrattazione collettiva. È un passaggio tutt’altro che indolore. L’effetto più temuto è la potenziale ripresa della rincorsa tra i prezzi e i salari che potrebbe comportare una perdita di competitività delle imprese meno solide e una svalutazione dei redditi fissi che non hanno una tutela contrattuale adeguata.
Un’idea di quanto potrebbe avvenire con un tasso di inflazione cumulato nel biennio 2022-23 del 17% è già possibile farsela per gli effetti della mancata indicizzazione delle pensioni superiori ai 2.600 euro lordi con una svalutazione delle rendite percepite che può oscillare tra il 7% e l’11% per il resto degli anni di vita.
Le difficoltà nel rinnovare i contratti nazionali dipendono soprattutto dall’indisponibilità delle imprese ad assecondare le richieste di aumenti salariali allineate con la crescita dei prezzi che si aggiungono all’incremento dei costi dell’energia che esse stesse subiscono. In effetti, le intese confederali prevedono che l’aumento dei minimi salariali nazionali debba tener conto dell’incremento dell’inflazione prevedibile al netto dell’incremento dei prezzi delle fonti energetiche importate.
D’altro canto, nelle attuali condizioni, è molto difficile da parte delle organizzazioni sindacali accettare una svalutazione equivalente al 5% del salario per circa 6 milioni di lavoratori in attesa dei rinnovi.
Che fare? A tal proposito il Segretario generale della Cgil ha pochi dubbi. Con un’intervista al quotidiano La Stampa (lunedì 9 gennaio) offre la sua ricetta: alleggerire il carico fiscale per i lavoratori portando la riduzione del cuneo fiscale a 5 punti, ridurre le aliquote di prelievo dell’Irpef in proporzione alla crescita dell’inflazione, assumere tutti i precari della Pubblica amministrazione. In pratica finanziare l’impatto dell’inflazione sui redditi con l’allargamento del deficit e del debito pubblico. Il tema si riproporrà, come sta già avvenendo, per ridurre le accise sui carburanti e per gli aiuti alle bollette energetiche. Ma una simile ricetta, nell’attuale contesto, comporterebbe non solo un ampliamento del debito pubblico sul lungo periodo, ma anche degli oneri degli interessi da pagare sull’emissione dei bond per finanziarlo nell’immediato. Gli ufficiali pagatori di queste ricette sono già individuati: i cittadini del ceto medio, quelli con redditi lordi superiori ai 35 mila euro, che pagano le tasse.
Per ridurre il deficit del sistema pensionistico, destinato ad aumentare per la riduzione del cuneo fiscale, è stata ridotta l’indicizzazione per il biennio 2023-24 delle pensioni lorde superiori ai 2600 euro che comporterà una svalutazione delle rendite percepite tra il 7% e il 12% per il resto della vita (e un risparmio superiore ai 40 miliardi per la spesa pensionistica).
Nel concreto il Segretario della Cgil sta proponendo di finanziare i rinnovi dei contratti nazionali aumentando il debito pubblico.
I contratti aziendali e territoriali possono essere uno strumento importante per destinare una parte dei risultati ottenuti in termini di redditività e di produttività alla crescita dei salari che la recente Legge di bilancio consente di tassare con un’aliquota simbolica del 5% o di essere fiscalmente esenti se gli importi vengono destinati alle prestazioni sociali a favore dei lavoratori. Ma allo stato attuale la contrattazione aziendale o territoriale coinvolge meno di un terzo dei lavoratori dipendenti.
In assenza di iniziative coordinate il sistema della contrattazione procede in ordine sparso. Più dinamico per i settori economici e le aziende che hanno un margine più elevato nel trasferire i costi sui prezzi e con buoni livelli di produttività. Il rinnovo dei contratti collettivi e gli accordi aziendali, infatti si è rivelato meno problematico nei settori che hanno in prevalenza queste caratteristiche. In sofferenza risultano essere in particolare i comparti dei servizi caratterizzati da una bassa produttività, con salari inferiori alla media e che, anche per questa ragione, faticano anche a trovare personale disponibile.
La crescita della produttività rimane pertanto la via maestra per contrastare l’inflazione e per aumentare i salari, ed è singolare che il tema, anche a fronte di quanto sta avvenendo nel mercato del lavoro sul terreno della carenza di lavoratori, non venga affrontato di petto dalle parti sociali incentivando la diffusione di accordi che favoriscono una crescita dei salari legati alla produttività utilizzando al meglio il potenziale di innovazioni tecnologiche ampiamente disponibili.
Orientare il sistema della contrattazione verso gli obiettivi di crescita della produttività, della crescita dei salari, della qualità del lavoro e delle competenze dei lavoratori è la strada maestra per uscire dall’impasse. È quanto sta avvenendo nelle aziende e nei settori dove le tutele dei lavoratori sono più solide.
È un obiettivo che può essere colto nell’arco di cinque anni in parallelo all’attuazione del Pnrr adottando anche soluzioni intermedie, come ad esempio è stato recentemente fatto con l’erogazione di anticipazioni degli aumenti salariali in assenza del rinnovo dei contratti per i 3 milioni di lavoratori dei comparti del commercio.
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