Per le autorità politiche e monetarie, l’effetto più temuto della ripresa dell’inflazione, è l’innesto di una rincorsa tra gli aumenti dei prezzi e dei salari che rischia di compromettere all’interno l’intero impianto della politica economica fondata sul rilancio degli investimenti del Pnrr. Questa eventualità non sembra turbare i pensieri dei Segretari Generali della Cgil e della Uil Landini e Bombardieri che, dopo aver proclamato uno degli scioperi generali più inutili della storia sindacale, accusano il Presidente della Confindustria di voler approfittare dell’aumento dei prezzi dell’energia per svalutare i salari dei lavoratori e preannunciano di ritenere superato l’accordo interconfederale sottoscritto il 9 marzo 2018.



Questa intesa, meglio nota come il Patto della Fabbrica, definisce i livelli e gli ambiti di intervento della contrattazione collettiva nazionale, aziendale e territoriale, e prevede che gli aumenti dei minimi salariali dei contratti nazionali di settore debbano essere contrattati tenendo conto della crescita dell’inflazione programmata depurata dagli aumenti dei prezzi dei beni energetici importati sulla base delle stime effettuate dall’Istat. È una clausola che negli anni recenti non ha impedito di rinnovare i contratti collettivi nazionali di categoria con aumenti superiori all’inflazione programmata nel contesto di una crescita dei prezzi inferiore all’1%, favorendo di fatto un aumento dei salari reali dei lavoratori interessati. Lo scenario è cambiato, anche in modo del tutto inaspettato, e sono legittime le preoccupazioni riguardo l’impatto sui redditi delle persone e delle famiglie.



Ma gli effetti redistributivi dell’aumento dei costi dell’energia vanno a favore dei fornitori di gas e di petrolio esterni al Paese, alle aziende italiane che forniscono energia che si approvvigionano con i contratti di lunga scadenza, e ai produttori di energie rinnovabili. Nel recente decreto approvato dal Governo, questi ultimi sono stati chiamati a concorrere al finanziamento delle misure di calmierazione dei prezzi delle forniture energetiche per le aziende e per le famiglie meno abbienti. Ma, in prima istanza, questo aumento dei prezzi non avvantaggia la stragrande parte delle imprese italiane che sono costrette a comprimere i margini di guadagno per non perdere gli ordinativi, ovvero a sospendere la produzione per evitare ulteriori perdite.



Quale effetto potrebbe produrre in questo contesto un aumento dei costi del lavoro? L’esperienza storica insegna che l’inflazione prolungata nel tempo finisce per generare le aspettative speculative legate a ulteriori aumenti dei prezzi, una perdita di valore dei risparmi e dei redditi fissi di una parte consistente dei lavoratori e dei pensionati. Negli anni ’80 dello scorso secolo, caratterizzati da periodi con elevata inflazione, per contenere la perdita di competitività delle merci italiane e la riduzione del valore reale dei risparmi dei cittadini, le autorità monetarie utilizzavano le leve della svalutazione della moneta e dell’aumento degli interessi sui depositi. Questo scenario è plausibile nelle attuali condizioni? Purtroppo, o per fortuna a secondo delle opinioni sulla materia, con l’avvento dell’euro la scappatoia della svalutazione della moneta non risulta più disponibile e un aumento duraturo dei tassi di interesse renderebbe insostenibile nel tempo il costo di un debito pubblico che nel frattempo è raddoppiato in rapporto al Pil.

La riduzione della competitività delle imprese rappresenterebbe un duro colpo per la ripresa dell’economia e dell’occupazione. In termini di redistribuzione del reddito si aprirebbero delle fratture difficilmente sanabili tra le attività produttive più efficienti, e i lavoratori in grado di tutelarsi in modo adeguato, rispetto a quelli che non lo possono fare o che dipendono dalla spesa corrente erogata dallo Stato.

Che fare? Nello scenario relativamente ottimistico di una fiammata dei prezzi destinata a rientrare nel corso dell’anno in relazione a un aumento delle forniture energetiche, che le autorità politiche e quelle monetarie continuano a ritenere come il più probabile, il costo dei rincari stimato su circa 40 miliardi per tutto il 2022 potrebbe essere inferiore. In questo caso la scelta del Governo di intervenire con misure tampone per contenere i costi delle forniture per le aziende e per le famiglie meno abbienti risulterebbe sufficiente. L’impatto sui salari potrebbe essere contenuto se in parallelo venissero rinnovati i contratti nazionali già scaduti, che riguardano attualmente il 52% dei lavoratori dipendenti, con aumenti salariali che potrebbero essere rateizzati nel corso del prossimo biennio. Diversamente, un’eventuale disdetta del Patto della Fabbrica metterebbe a serio rischio i rinnovi di questi contratti, soprattutto nei settori caratterizzati dalla presenza di micro aziende e che scontano una debolezza delle relazioni sindacali.

L’occasione potrebbe essere colta per favorire un’intesa di più alto profilo rivolta a orientare la definizione dei nuovi minimi salariali dei contratti collettivi da parte delle Confederazioni accompagnata dall’impegno del Governo di consolidare la riduzione del cuneo fiscale sulle retribuzioni più basse. È il percorso che nella sostanza è stato suggerito dal Segretario Generale della Cisl Luigi Sbarra, rivolto anche a salvaguardare l’importanza del dialogo tra il Governo e le parti sociali in una condizione economica internazionale assai difficile.

Una strada che, a maggior ragione, dovrebbe essere intrapresa se le condizioni generali dovessero peggiorare imponendo scelte di carattere straordinario in termini di approvvigionamento energetico, di salvaguardia delle strutture produttive e di tutela dei ceti meno abbienti.

Quello che sta accadendo nello scenario internazionale rende evidente la necessità di conciliare gli obiettivi della transizione ambientale con una maggiore diversificazione degli strumenti e dei percorsi per ottenere risparmi energetici, di contenimento dei costi tramite aumenti di produttività, di ripensamento del sistema degli incentivi, per renderla più adeguata e sostenibile rispetto alle condizioni del nostro apparato produttivo.

Questi problemi possono essere affrontati in due modi. Il primo, alzando il livello di collaborazione tra le istituzioni e le rappresentanze sociali per cercare di rimediare in tempi ragionevoli le debolezze del nostro sistema economico in termini di dipendenza, produttività e solidità del mercato del lavoro. Il secondo è quello di utilizzare queste criticità per aumentare i livelli di conflitto nei rapporti tra il capitale e il lavoro come la via maestra per tutelare gli interessi dei lavoratori.

La scelta di campo operata da Landini e Bombardieri è molto chiara, per l’obiettivo dichiarato di compensare la disaffezione popolare verso i partiti con supplementi di rivendicazioni sindacali. Ma cercare di rimediare ai fallimenti del populismo politico con ulteriori dosi di massimalismo sindacale è quello che serve al nostro Paese?

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