Così come la stagione pandemica è stata sovente paragonata ai grandi conflitti del Novecento e la crisi Ucraina alla Guerra Fredda, anche il dibattito sul rapporto tra inflazione e salari rimanda agli aspri confronti degli anni Ottanta tra Governo, imprese e sindacati. In questo caso specifico, il rischio, ancora una volta, è che la ripetizione finisca in farsa. 



Nell’accordo quadro di riforma degli assetti contrattuali del 22 gennaio 2009, le parti sociali adottarono un nuovo indicatore della crescita dei prezzi al consumo come riferimento per la contrattazione degli incrementi retributivi: l’indice IPCA depurato dalla dinamica dei prezzi dei beni energetici importati, valutato più idoneo a interpretare l’aumento del costo della vita rispetto all’inflazione programmata (indice di riferimento dal 1993 al 2009). Tale indicatore è diventato nel tempo il punto di partenza della negoziazione della componente economica dei contratti collettivi, solitamente rinnovati a valori anche sostanziosamente più elevati. In questo periodo storico, questo stesso indicatore non è più in grado di proteggere i rinnovi dalla spirale inflazionistica e per questo i sindacati sottolineano la necessità di ritornare a usare come parametri dei valori programmati. 



Non solo, la Cgil, in particolare, suggerisce al Governo di detassare tutti gli incrementi retributivi derivanti dagli scatti tabellari definiti dai contratti nazionali, anche per incentivare il rinnovo di quelli scaduti. Confindustria ritiene invece non rinviabile uno strutturale intervento sul cuneo fiscale: lo Stato deve rinunciare a parte delle elevate tasse sul lavoro e/o rimodulare le aliquote contribuite. 

Si tratta di due proposte comprensibili, effettivamente richiamanti il dibattito degli anni Ottanta, ma estremamente costose e slegate dalla crescita della produttività, la cui stagnazione preoccupa non poco l’Esecutivo. Il Ministro Orlando si è spinto fino a immaginare un incremento dei trattamenti salariali a spese delle imprese, per “stanare” quelle che nonostante la crisi stanno producendo utili; meno chiara la posizione del Ministro Franco, che per ora si è accontentato di proseguire sulla strada, anch’essa molto battuta dagli ultimi Governi, dei bonus una tantum (200 euro per redditi bassi, buono benzina, ecc.). Quantomeno originale e per questo meritevole di approfondimento la proposta della Cisl di piena detassazione degli accordi di produttività, superamento degli indicatori incrementali (che complicano la firma di questi stessi accordi) e di potenziamento del welfare aziendale, tanto quello sociale che i flexible benefit che fino al 2021 potevano essere ricompresi in 516 euro e sono ora tornati a essere soggetti alla soglia di 258 euro dopo la mancata e ingiustificata conferma della misura da parte del Parlamento. 



Il richiamo al welfare aziendale è fondato poiché questo, per definizione normativa, non è reddito da lavoro e non è quindi ridotto dal alcun cuneo fiscale, come voluto da Confindustria. Dal 2016 i flexible benefit, inoltre, hanno iniziato a essere scambiati nei contratti collettivi nazionali e ne hanno facilitato il rinnovo (è accaduto nel Ccnl dei metalmeccanici), come richiesto dalla Cgil. Non solo: grazie alle disposizioni di cui ai commi 2 e 3 dell’articolo 51 del TUIR le aziende possono integrare i bonus definiti nelle leggi di bilancio, come auspicato dal Governo. 

Il welfare aziendale è perciò un istituto di equilibrio che certamente non risolve il complesso nodo del rapporto tra salari e inflazione, ma di certo contribuisce a contenerlo, con un pragmatismo che manca alle ricette di chi recita a memoria le battute di un dibattito di 40 anni fa. 

@EMassagli

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