Le indagini dell’Eurostat e dell’Ocse hanno offerto una valutazione statistica della stagnazione del valore reale dei salari italiani nel corso degli ultimi 30 anni e del progressivo distanziamento dall’importo medio delle retribuzioni dei principali Paesi sviluppati. Concorrono al risultato una serie di fattori: la bassa crescita della produttività del capitale e del lavoro; la riduzione della quota dei profili qualificati sul totale dei lavoratori; l’aumento del numero degli occupati con orari ridotti e con redditi inferiori a quello mediano.



In un recente articolo abbiamo messo in evidenza che le tendenze negative sono la diretta conseguenza del sottoutilizzo delle innovazioni tecnologiche in molti comparti dei servizi privati che hanno caratterizzato la crescita dell’occupazione negli anni 2000 e dal blocco del turnover nella Pubblica amministrazione. Nei comparti del terziario privato, a eccezione del sistema bancario e della grande distribuzione, l’andamento negativo degli investimenti ha comportato anche una mancata crescita della dimensione delle imprese, una riduzione della quota di lavoratori qualificati e specializzati e un elevato utilizzo della flessibilità del lavoro.



Le politiche economiche e sociali in Italia hanno prestato attenzione agli effetti negativi della mancata crescita dei salari e attivato un importante aumento dei sostegni pubblici ai redditi delle famiglie. Negli anni recenti, questi sostegni sono stati destinati in particolare a ridurre temporaneamente gli oneri previdenziali sulle buste paga, per compensare il mancato adeguamento dei salari contrattuali rispetto alla crescita dell’inflazione (+ 8% rispetto al 2019). Per una parte rilevante dei dipendenti privati, circa 3,7 milioni, i contratti collettivi nazionali non sono stati rinnovati e lo sgravio dei contributi previdenziali ha rappresentato l’unica fonte di salvaguardia dei salari netti.



I sostegni statali ai salari finanziati con un aumento del debito pubblico, anche se motivati dalle condizioni di emergenza, rappresentano una redistribuzione di risorse che non trovano un corrispettivo nella crescita dell’economia e dei redditi dei contribuenti.

Nel caso italiano l’incremento della produttività pro capite degli occupati risulta indispensabile per rendere economicamente sostenibile l’impatto delle tendenze demografiche: la riduzione attesa della popolazione in età di lavoro e l’aumento delle prestazioni sociali per le persone anziane.

Il sistema contrattuale fondato sui rinnovi collettivi nazionali si dimostra inadeguato nel tutelare il valore reale dei salari anche a fronte del recupero di redditività delle imprese, che si è verificato negli ultimi due anni. L’esigenza di offrire una risposta in questa direzione è stata richiamata in un recente intervento del nuovo Governatore della Banca d’Italia Panetta.

I limiti oggettivi per il prosieguo degli interventi statali e le evidenti criticità dell’attuale sistema di contrattazione, gli obiettivi della crescita della produttività e del parallelo miglioramento della qualità delle condizioni salariali e lavorative, faticano ad assumere un ruolo centrale nelle relazioni sindacali.

La produttività del lavoro attiva lo stereotipo dell’incremento della fatica e dello sfruttamento dei lavoratori, che nella versione post-moderna assumono la veste degli algoritmi informatici che dettano le modalità e i tempi delle prestazioni lavorative. Differenziare i salari rispetto all’andamento della produttività dei settori e delle aziende comporta, nell’immaginario collettivo, una frattura dei livelli di solidarietà che dovrebbero essere garantiti dai Contratti collettivi nazionali di lavoro. Il coinvolgimento dei lavoratori e delle loro rappresentanze non viene accolto con favore dalle associazioni datoriali nei settori caratterizzati da una presenza prevalente delle micro imprese e da una redditività aziendale basata sull’utilizzo flessibile della forza lavoro. Nelle condizioni attuali, la mancata crescita della produttività non consente di rivalutare in modo robusto i salari reali per favorire l’attrattività delle professioni in molti settori e di soddisfare la richiesta di personale dotato di competenze da parte delle imprese.

Il legame positivo tra la crescita della produttività e le condizioni dei lavoratori trova una conferma dell’efficacia nei contratti aziendali e territoriali di secondo livello, in particolare nelle aziende manifatturiere che hanno migliorato i livelli di competitività, i salari e le condizioni di lavoro. Purtroppo l’incidenza delle buone pratiche coinvolge poco meno di un quarto dei lavoratori. Gli sgravi fiscali previsti per i salari collegati alla produttività e alla redditività delle imprese e per le prestazioni sociali destinate alle famiglie dei dipendenti coinvolgono meno di tre milioni di lavoratori.

La palese assenza di un dialogo sociale tra le grandi confederazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori, finalizzato ad adeguare il sistema contrattuale per rispondere ai nuovi fabbisogni, spinge entrambe le parti a richiedere nuovi interventi dello Stato per supplire la loro incapacità di offrire risposte ai problemi. Una sorta di presa d’atto della impossibilità di giocare un ruolo da protagonisti del cambiamento che può comportare conseguenze letali per il ruolo dei corpi intermedi del mondo del lavoro. Le recenti vicende del mondo agricolo consentono di comprendere le conseguenze della mancanza di soggetti sociali in grado di svolgere un ruolo di mediazione tra gli interessi coinvolti.

Serve un cambio di paradigma sul fronte delle politiche industriali per diffondere l’utilizzo delle innovazioni tecnologiche e l’aggiornamento delle competenze dei lavoratori nei comparti dei servizi, in modo analogo a quello operato dagli incentivi del programma “Industria 4.0” per i settori manifatturieri. Incentivi che hanno svolto un ruolo decisivo per migliorare la competitività delle imprese e delle esportazioni italiane.

Ma il successo di queste politiche rimane condizionato dal numero degli attori in grado di sfruttare le opportunità, di compartecipare ai benefici e di farsi carico dei costi sociali che accompagnano le ristrutturazioni dei sistemi di produzione.

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