È stata depositata qualche settimana fa una sentenza della Sezione lavoro della Corte di Cassazione che interviene su un tema per certi versi noto e antico, ma che ha trovato un rinnovato interesse a causa di alcune concomitanti vicende.

La sentenza n. 3713 del 2 ottobre 2023 interviene sulla possibilità del giudice di sindacare il livello della retribuzione che il datore di lavoro corrisponde a un lavoratore sulla base del contratto nazionale di lavoro applicato al rapporto; l’aspetto nuovo – e per certi versi dirompente di tale pronuncia – è che i giudici hanno ritenuto di poter entrare nel merito del quantum della retribuzione fissata da un contratto collettivo sottoscritto da sindacati più rappresentativi a livello nazionale.



Il tema suscita grande interesse, visto che recentemente gli Stati membri dell’Ue sono stati chiamati a dare attuazione alla direttiva 2022/2041 del 19 ottobre 2022 “relativa a salari minimi adeguati nell’Unione europea”; che in Parlamento è all’esame un disegno di legge, per l’appunto, di introduzione di un salario minimo legale; che l’assemblea del Cnel ha recentemente pubblicato un documento sul c.d. lavoro povero, nel quale si esprime, sia pure a maggioranza, in favore della “delega” alla contrattazione collettiva per la determinazione dei salari, rigettando l’ipotesi un intervento normativo.



Prima di affrontare i contenuti della sentenza n. 3713, è necessario fare alcune premesse.

Nell’ordinamento italiano non esiste un generale obbligo di rispettare puntuali livelli retributivi; i sindacati si sono così assunti storicamente il compito di fissare una retribuzione minima nei vari comparti; di per sé, però, non esiste alcun obbligo per un datore di applicare un contratto collettivo al rapporto e, nel caso in cui lo faccia, che il Ccnl che applica sia coerente con la categoria produttiva nella quale opera. Esistono poi alcune norme che in via indiretta spingono i datori a privilegiare l’applicazione di un dato contratto collettivo, che normalmente è quello (o uno di quelli) stipulato dalle organizzazioni più rappresentative o maggiormente rappresentative o comparativamente più rappresentative.



L’unico dato normativo forte è l’art. 36 della Costituzione, norma di carattere immediatamente precettivo, che assicura al lavoratore il diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e alla qualità del lavoro svolto e in ogni caso sufficiente a provvedere ai bisogni propri e della propria famiglia. Sulla base di questa norma i giudici in passato hanno spesso ritenuto non conforme al precetto costituzionale quei contratti collettivi (c.d. pirata), stipulati da organizzazioni dotate di scarsissima rappresentatività, che riconoscevano ai lavoratori retribuzioni significativamente più basse di quelle corrisposte dai sindacati più rappresentativi.

Nella sentenza in esame il dato significativo è che i giudici hanno invece sindacato il trattamento retributivo fissato da un Ccnl stipulato proprio da organizzazioni sindacali più rappresentative.

Stupisce in verità il pudore, se così si può dire, con il quale i giudici hanno condotto tale operazione: più volte nel testo della sentenza c’è un monito alla prudenza e al rispetto, con i quali i giudici devono vagliare i prodotti della contrattazione collettiva. Ma convince (almeno chi scrive) il grande richiamo alla realtà di fatto che si è venuta a determinare negli ultimi tempi nel nostro Paese.

Il caso si può sommariamente riassumere in questi termini: un lavoratore, addetto per il tramite di un contratto di appalto presso un supermercato, si è trovato a transitare presso diversi datori di lavoro che nel frattempo si erano avvicendati nell’appalto; a ogni cambio di appalto, il lavoratore veniva assunto dal nuovo datore, ma con una retribuzione inferiore; e tutti i vari datori, alle sue doglianze, si difendevano richiamando il fatto che altro non facevano che applicare il Ccnl stipulato da oo.ss. rappresentative.

La sentenza in esame ha accolto le pretese del lavoratore, così cassando la sentenza impugnata e rinviando al giudice di primo grado per la determinazione delle differenze retributive calcolate sulla base dei minimi contrattuali del Ccnl applicato al rapporto e altro Ccnl.

Quello che più colpisce della sentenza è la realtà di fatto che la Corte di Cassazione ha evidenziato quale ragione storico-pratica che le ha consentito di entrare nel merito dei livelli tariffari dei Ccnl.

La Corte si è riferita a: a) la frammentazione della rappresentanza; b) la frantumazione dei perimetri negoziali e degli ambiti della contrattazione, dei settori e delle categorie; c) la conseguente proliferazione del numero dei Ccnl (il Cnel ne ha censiti 946 per il settore privato); d) la moltiplicazione del fenomeno della disparità di retribuzione a parità di lavoro e la mortificazione dei salari.

Sono, questi, fenomeni che dipendono da una concorrenza tra le sigle sindacali (e ci si riferisce non solo alle organizzazioni dei lavoratori ma anche a quelle datoriali) che da una parte vivono una forte crisi di rappresentanza e dall’altra – absit iniuria verbis – sono motivate da una feroce caccia agli iscritti.

La Cassazione conclude riferendo due altri dati di realtà, degni di nota, ossia: e) il ritardo abituale dei rinnovi dei contratti collettivi la cui durata impedisce un effettivo adeguamento dei salari ai cambiamenti economici; f) una dinamica inflazionistica severa negli ultimi due anni, con la conseguente perdita del potere di acquisto dei salari.

Ad esempio, nel settore della sanità, il Ccnl Aiop-Aris-Fondazione don Gnocchi per i medici dipendenti di strutture private (che risale al 2002-2005, ossia a circa 20 anni fa!) prevede un trattamento economico dai 15.000 ai 30.000 euro in meno rispetto al contratto pubblico; il Ccnl Aris (che lo ha rinnovato per il triennio 2020-2023 separandosi dall’Aiop) prevede un trattamento economico dai 6.500 ai 14.000 euro inferiori rispetto al pubblico.

Chi ha gridato allo scandalo di vedere i giudici di legittimità intromettersi in un ambito tradizionalmente riservato al libero dialogo delle parti sindacali sembra ignorare questi dati di fatto; pare invece a chi scrive che la sentenza di Cassazione altro non fa che porre rimedio (tentare di porre rimedio) in un contesto in cui gli attori di esso – sia detto semplicemente e forse un po’ brutalmente – non stanno facendo il loro mestiere.

Un lavoratore della sanità privata, che si vede applicare un contratto vecchio di 20 anni, che guadagna diverse decine di migliaia di euro di stipendio in meno di un suo collega che fa il suo stesso mestiere ma in un ospedale pubblico, che subisce un’inflazione che erode sensibilmente il potere di acquisto del suo stipendio, che venga a sapere della sentenza della Cassazione non ha forse motivo di ricorrere in tribunale contro il suo datore di lavoro?

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