Febbraio è da sempre il mese più impegnativo per i sindacati giapponesi. Si apre infatti la stagione della “primavera calda” in vista dei rinnovi contrattuali prima di marzo, il mese dei bilanci per le società del Sol Levante.

Tutto stava a indicare che la partita di quest’anno sarebbe stata particolarmente complessa: l’inflazione, praticamente assente da decenni, è salita al 4,3% ai massimi da 41 anni, con effetti devastanti per il potere d’acquisto delle famiglie.



A fronte di una disoccupazione da prefisso telefonico (lo 0,4%), i lavoratori si sono accontentati negli anni della grande deflazione di aumenti minimi, quasi simbolici. Lo stipendio medio ammonta così a 40 mila dollari circa, ben al di sotto della media del G7 (51 mila dollari).

E così i sindacati si sono presentati ben agguerriti davanti al board di Toyota, il gigante dell’auto che si accinge ad annunciare utili record. Grande è stata però la sorpresa quando, ascoltate le richieste delle Unions, i vertici del gruppo hanno replicato che “vi risponderemo a breve. Ma avevamo intenzione di offrirvi di più”.



Una mossa a sorpresa? Solo in parte. Pochi giorni prima era stato il colosso Uniqlo, uno dei leader mondiali del commercio retail, ad annunciare aumenti salariali nell’ordine del 40%. Honda ha già concesso rilevanti aumenti in busta paga. E lo stesso si accingono a fare Nintendo, Suntory e il colosso delle polizze Nippon Life Insurance.

In sostanza, ribaltando la politica tenuta dal Duemila in poi grazie anche alla concorrenza assicurata dai partner a basso costo (le fabbriche in Thailandia, Vietnam e Cina), i Big del Sol Levante hanno accolto le richieste del Premier Kishida, che considera necessario un aumento dei consumi interni per sradicare la mala pianta della deflazione che frena l’economia, troppo legata all’andamento dell’export. Solo una forte ripresa del mercato di casa può spezzare il circolo vizioso di un sistema che poggia su tassi negativi, bassa natalità edun mercato pubblico sostenuto da famiglie sempre più anziane a scapito della produttività del sistema.



Sarà la terapia giusta? Forse sì, se il messaggio verrà raccolto dalle milioni di piccole imprese che occupano il 70% della manodopera. Non meno complesso il ruolo del nuovo Governatore della Bank of Japan, Kazuo Ueda (compagno di scuola negli Usa di Mario Draghi). Toccherà a lui interrompere il flusso di sostegni all’economia che ha ingessato il sistema (in pratica i due terzi del flottante della Borsa di Tokyo è ormai nelle mani della banca centrale) oltre a finanziare la grande speculazione dei Big delle Borse che s’indebitano in yen a basso costo per poi operare sulle piazze occidentali, a basso costo e alti profitti: basta una telefonata per indebitarsi in un J bond a dieci anni allo 0,5% per poi comprare un Btp al 4,50%…

Così come era successo con la Abenomics di Shinzo Abe, capostipite della politica di Quantitative easing poi adottata dopo la crisi dei subprime dalla Fed e dalla Bce dell’era Draghi, alle prese con la crisi dell’euro scatenata dal rischio default della Grecia, il Giappone si assume ancora una volta il compito di cambiare e regole del gioco: dopo decenni di subalternità dei lavoratori al capitale arriva la prima inversione di tendenza. Certo, il quadro è complesso. Negli Usa i nuovi baroni dell’economia, ovvero i grandi di Silicon Valley, dichiarano guerra al sindacato e all’aumento dei diritti dei lavoratori, un tempo viziati dalla retorica della new economy, oggi puniti da Apple e Google se osano proporre la nascita di un sindacato e di regole comuni. Oppure, ed è il caso di Amazon, costretti a subire un taglio della paga in caso di caduta delle quotazioni del titolo in Borsa.

Ma l’onda lunga del Giappone merita una qualche riflessione nel Bel Paese che tanto assomiglia alla terra dei samurai.

Gli stipendi, tanto per cominciare, sono più bassi: in media 30 mila euro soltanto, in ribasso, caso unico, rispetto a inizio millennio. Una moderazione salariale servita a finanziare il fabbisogno primario, necessario per far quadrare i conti pubblici, ma che sta favorendo la fuga all’estero di una generazione di braccia e cervelli nonché una drammatica disaffezione dei lavoratori. Certo, un Paese come il nostro, legato ai vincoli del Patto di stabilità e inserito nell’area euro, deve rispettare le regole. Ma anche di fronte ai risultati mediamente positivi delle società quotate, val la pena di cominciare a considerare l’emergenza salari, girando una parte crescente del valore aggiunto ai lavoratori.

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