L’obiettivo primario della nuova direttiva europea sul salario minimo è quello di garantire ai lavoratori con le retribuzioni più basse e meno qualificati un salario dignitoso che viene ponderato sull’importo non inferiore al 60% del salario mediano di ogni Paese aderente all’Ue. Come già ricordato, il provvedimento non vincola i singoli Paesi a definire l’importo del salario minimo tramite una legge e lascia aperta l’opzione di procedere anche rafforzando il ruolo della contrattazione collettiva per l’obiettivo esplicito di garantire la copertura dei contratti collettivi sottoscritti dalle rappresentanze dei datori di lavoro e dei lavoratori per almeno l’80% dei lavoratori interessati.
Sul merito della direttiva, che dovrebbe essere approvata definitivamente entro il mese corrente, abbiamo già avuto modo di esprimere la nostra opinione. Con l’occasione abbiamo evidenziato un equivoco che continua a permanere nel dibattito italiano sul recepimento della direttiva, fondato sulla convinzione che l’introduzione del salario minimo possa rappresentare un’opportunità per riparametrare verso l’alto anche salari delle professioni più qualificate. Queste posizioni rappresentano implicitamente una critica sull’efficacia della contrattazione collettiva e del ruolo svolto dalle rappresentanze del mondo del lavoro in Italia. Con il corredo di analisi alquanto discutibili per stimare la quota dei lavoratori non protetti ovvero di quelli con le retribuzioni annue inferiori alla soglia utilizzata per stimare le famiglie povere (circa il 12% del totale dei dipendenti privati). Una valutazione opposta a quella fornita nelle indagini preliminari della Commissione europea che colloca l’Italia tra i cinque Paesi con il più elevato grado di tutela dei contatti collettivi, di gran lunga superiore all’80% auspicato come obiettivo della nuova direttiva. Buona parte dei salari poveri, infatti, non è dovuta al valore orario delle remunerazioni, ma alla durata limitata dei rapporti di lavoro.
Tuttavia l’esigenza di introdurre un salario minimo tramite una legge trova un discreto consenso nell’opinione pubblica in relazione alla oggettiva stagnazione del potere di acquisto dei salari, in corso da numerosi anni, accompagnata dalla motivata preoccupazione per la tenuta di quelli esistenti di fronte alla massiccia ripresa dell’inflazione.
Credo che nessuna persona di buon senso possa negare l’esistenza di una questione salariale che merita di essere affrontata con scelte adeguate con effetti di medio lungo periodo. Come per ogni male la cura richiede una diagnosi appropriata. Nei tempi recenti sono circolate numerose stime che hanno messo in relazione i divari negativi negli andamenti della crescita economica (la torta da spartire), della produttività (il valore aggiunto da redistribuire verso gli azionisti, i lavoratori e lo Stato tramite le imposte e i contributi sociali) e dei salari reali, con quelli registrati per l’insieme dei Paesi dell’Ocse. Questi numeri sono stati abbondantemente commentati sui mass media. In buona sostanza il nostro Paese, che risultava allineato con il reddito medio dei Paesi della vecchia Europa all’inizio degli anni 2000, si ritrova distanziato del 20% sulle stime del reddito pro capite, altrettanto per quelle relative all’importo dei salari medi nazionali.
Secondo l’Ocse, i salari reali medi italiani sono persino diminuiti, soprattutto per il forte aumento dei contratti a tempo ridotto, senza beneficiare degli aumenti di produttività (+12%) che, nonostante il segno positivo, rimangono molto al di sotto delle performance registrate negli altri Paesi aderenti all’Ue. Una quota di questi incrementi di produttività sono stati di fatto incamerati dallo Stato con l’aumento della pressione fiscale e dei contributi sociali (il famoso cuneo che riduce le retribuzioni nette) per sostenere l’aumento della spesa pensionistica e soprattutto di quella assistenziale. Per l’effetto di queste dinamiche il costo del lavoro per unità di prodotto, uno degli indicatori della competitività del sistema Paese, è rimasto praticamente inalterato nonostante la stagnazione del valore dei salari reali.
In estrema sintesi, possiamo constatare che l’origine della questione salariale italiana è la conseguenza della bassa crescita dell’economia e della produttività, del parziale aumento del cuneo fiscale e contributivo sui salari lordi, del numero dei contratti di lavoro a tempo ridotto.
Nei primi trent’anni del dopoguerra, la crescita dell’economia italiana, della produttività e dei salari sono sempre rimaste al di sopra della media dei Paesi europei per il concorso di diversi fattori: le innovazioni nei processi produttivi delle aziende manifatturiere, il ruolo trainante delle attività dei comparti della costruzioni, le dinamiche demografiche positive della popolazione in età di lavoro.
In quegli anni il ruolo della contrattazione collettiva per aumentare i salari nominali è stato rilevante per il concorso della scala mobile, anche se il valore reale di questi aumenti nel rapporto con i salari medi degli altri Paesi europei veniva ridimensionato dalle cicliche svalutazioni della lira. Le critiche a questo modello di crescita venivano concentrate sull’incapacità di generare un’adeguata espansione delle nuove opportunità di lavoro, di essere poco “labour intensive” per via dei ritardi nei percorsi di crescita dei comparti dei servizi rivolti alla collettività e alle persone, che hanno assunto un ruolo più rilevante nella crescita dell’economia e dell’occupazione in tutti i Paesi sviluppati.
L’inversione di tendenza avviene nel corso degli anni ’90 dello scorso secolo. A partire da quel periodo il peso dell’industria manifatturiera, pur rimanendo superiore alla media degli altri Paesi europei, si ridimensiona in modo costante. Quello dei comparti delle costruzioni si dimezza nel corso degli anni 2000 per via della riduzione delle nuove costruzioni residenziali e degli investimenti pubblici nelle infrastrutture. A svolgere un ruolo trainante, e compensativo, per l’occupazione, soprattutto nell’ultimo decennio, sono stati alcuni comparti dei servizi: il turismo, la ristorazione, la logistica, i servizi verso le imprese e per il tempo libero, le riparazioni e manutenzioni, il lavoro domestico.
Un’interessante indagine condotta dall’Università di Oxford per conto della Federmanager sull’evoluzione dei comparti del terziario nei principali Paesi europei mette in evidenza la peculiarità della crescita di questi comparti in Italia caratterizzata da un livello decrescente della quota degli investimenti e da una redditività generata dalla compressione dei costi del lavoro anche tramite l’utilizzo dei rapporti di lavoro flessibili (in parte relazionati alla stagionalità della domanda). Questa evoluzione ha comportato una perdita di 1,3 milioni di posti di lavoro qualificati sostituiti da un analogo numero di rapporti di lavoro con basse qualifiche e un aumento di oltre 2 milioni di contratti a termine e a part time negli ultimi 15 anni. È soprattutto in questi comparti che si registra un andamento decrescente della produttività che si riflette negativamente sulla dinamica più generale dei redditi e dei salari.
Per comprendere compiutamente quanto avvenuto giova evidenziare che nel corso degli anni 2000 il 70% dell’incremento dell’occupazione avviene per il contributo offerto dagli immigrati (+1,4 milioni) e del lavoro sommerso. La componente delle prestazioni sommerse e delle sotto dichiarazioni del reddito rimane pressoché inalterata intorno al 12-13% del Pil, ma la mappa del lavoro sommerso si riposiziona in modo rilevante nei comparti del terziario ad alta intensità di lavoro (circa i due terzi del totale). Come abbiamo avuto modo di evidenziare in un recente articolo, il lavoro sommerso rappresenta nel contempo una fonte di approvvigionamento delle risorse umane non ufficialmente reperibili nel mercato del lavoro, di integrazione dei redditi familiari non dichiarati all’erario, e di contenimento dei costi dei prodotti e delle prestazioni. Un ruolo analogo a quello svolto nell’economia generale e per la sostenibilità dei redditi familiari nella condizione dalle importazioni delle merci a basso costo provenienti dai Paesi in via di sviluppo. In modo strisciante si è affermato nel nostro pPese un modello economico fondato sul sottoutilizzo delle risorse finanziarie, tecnologiche e umane che produce una bassa crescita e redditi stagnanti e che rimane sostenibile solo nelle condizioni di bassa inflazione.
Una realtà che solo la dilagante ipocrisia del nostro dibattito politico, dominato dalla rappresentazione di un Paese popolato da moltitudini di poveri affamati e bisognosi del soccorso dello Stato, fatica a riconoscere. Ma sono molti i fattori che fanno propendere a ritenere che questo modello sia prossimo all’implosione. Il primo fattore è rappresentato dal ritorno dell’inflazione importata che vanifica uno dei pilastri della sostenibilità di questo modello. In qualche modo bisognerà trovare il modo di tutelare i salari dei milioni di persone che vivono di un reddito fisso. L’ipotesi di ridurre il cuneo fiscale, con un supplemento di spesa pubblica (aggiuntivo alle risorse pubbliche destinate a contenere i prezzi dei carburanti) forse rappresenta l’unica soluzione possibile nel breve periodo. Non lo è sul medio e sul lungo periodo per via della riduzione delle persone in età di lavoro per assicurare le risorse destinate a rendere sostenibili le prestazioni sociali. Nel medio lungo periodo la soluzione rimane quella di aumentare il tasso di occupazione e della produttività.
Com’era facilmente prevedibile, nel nuovo scenario un ulteriore ampliamento del debito pubblico rischia di provocare conseguenze irreparabili sulla sostenibilità dello stesso nel medio periodo. L’unica strada possibile rimane quella di ridurre il peso delle prestazioni assistenziali per tutte le persone che sono in grado di lavorare. Un’inversione di tendenza necessaria anche in relazione alla crescente carenza di manodopera disponibile, particolarmente accentuata nell’ambito dei comparti dei servizi e nelle attività esecutive.
Le cause dell’arretratezza di molti comparti dei servizi sono riconducibili a numerosi fattori: le mancate riforme del welfare che hanno penalizzato la crescita della sanità, dell’istruzione, dell’assistenza, dei servizi di conciliazione lavoro famiglia e delle politiche attive del lavoro; la scarsa qualità del ricambio imprenditoriale; i ritardi nella digitalizzazione delle prestazioni. Riformare il welfare, diffondere servizi con elevata componente digitale, qualificare le risorse umane, rivalutare i mestieri e retribuiti in modo adeguato, sono le vie privilegiate per offrire risposte di lungo respiro.
Questi percorsi sono già in atto nelle medie e grandi aziende che cercano di supplire alle carenza sistemiche aggiornando le politiche del personale e instaurando solidi rapporti con il mondo della ricerca e il sistema formativo. Tutto questo non sta avvenendo nel mondo delle micro aziende, in particolare nei comparti dei servizi e richiederebbe un supplemento di interventi promossi dalle istituzioni e dalle parti sociali finalizzati a promuovere marchi di qualità, strategie di marketing, crescita della dimensione delle imprese, sviluppo delle competenze dei lavoratori, liste di disponibilità per l’incontro domanda-offerta, sviluppo della contrattazione territoriale.
Ma, al di là delle lamentele, l’unica risposta in campo (e sulla quale convergono le parti sociali e le forze politiche) per mantenere sostenibili le attività economiche rimane quella di invocare l’ingresso di nuove masse di immigrati senza competenze e con modalità di gestione che non riescono nemmeno a soddisfare l’obiettivo.
In perfetta continuità con le politiche populiste praticate negli anni recenti, sta riscontrando un discreto consenso l’idea che la soluzione possa essere offerta da un aumento dei salari disposto per via legislativa destinato miracolosamente a stimolare una rivoluzione virtuosa nei comportamenti delle imprese e nelle organizzazioni del lavoro. Gli aumenti dei salari minimi dovrebbero essere previsti anche per il milione di colf e badanti (quasi il 50% dei lavoratori che risulterebbero attualmente al di sotto della soglia di povertà e da retribuire con un salario minimo orario di 9 euro) da mettere a carico delle famiglie.
L’immancabile teorico dello “choc virtuoso”, che trascura le possibili vie di fuga dell’aumento dei prezzi da parte delle imprese ovvero dell”ulteriore espansione del lavoro sommerso delle prestazioni verso le famiglie, è il Prof. Pasquale Tridico, attuale Presidente dell’Inps, evidentemente galvanizzato dal successo delle precedenti profezie sul Reddito di cittadinanza, definito in tempi non sospetti come la più grande politica attiva promossa in Italia e destinata generare 1 milione di nuovi posti di lavoro (Corriere della Sera, febbraio 2019).
In attesa dei benefici dello “choc virtuoso”, destinato ad aggiungersi a quelli della pandemia e della guerra in Ucraina, resta da comprendere se in questo Paese è rimasto in piedi un residuo di classe dirigente disposta a parlare il linguaggio della verità.
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