Mentre le Confederazioni sindacali – divise da tempo su quasi tutto – si sono ritrovate unite in piazza del popolo per partecipare alle idi di marzo di Repubblica, trovandosi persino d’accordo su alcune critiche al Piano di Ursula von der Leyen; mentre la Cgil è impegnata allo spasimo nella battaglia referendaria promuovendo comitati elettorali per il Sì persino negli scantinati; mentre la Cisl si appresta a celebrare l’approvazione della legge (benché scarnificata) sulla partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese;
mentre la Uil si guarda attorno per decidere a chi e dove chiedere un passaggio, l’Oil, nel suo recentissimo Rapporto mondiale sui salari 2025-26 richiama i sindacati italiani al loro mestiere, sottolineando una volta di più che l’Italia è il Paese del G20 dove i salari hanno subito la più forte perdita di potere d’acquisto dal 2008 a oggi: -8,7%.
In Francia, nello stesso periodo, c’è stato un aumento di circa il 5%, in Germania di quasi il 15%. Negli ultimi tre anni, dopo un calo dei salari reali del 3,3% nel 2022 e del 3,2% nel 2023, nel 2024 c’è stato comunque un aumento del 2,3%, che va segnalato come tale anche se comunque insufficiente a recuperare la perdita di terreno rispetto all’inflazione, che nel 2022 aveva raggiunto il picco dell’8,7%.
Secondo l’Oil è stata principalmente l’inflazione, che penalizza maggiormente le retribuzioni più basse, a determinare la cattiva performance delle retribuzioni in Italia. Non è la prima volta che il nostro Paese finisce agli ultimi posti su questioni attinenti il lavoro, anche se i trend non sono tutti negativi, come in materia di occupazione e segnalano l’avvio di una ripresa anche per quanto riguarda la dinamica salariale.
L’Istat segnala, infatti, che nella media del 2024, in concomitanza con una crescita molto debole dei prezzi, le retribuzioni contrattuali, dopo due anni di marcato arretramento in termini reali, fanno registrare un primo sensibile miglioramento. A livello settoriale la crescita è robusta nel settore privato, in particolar modo nel comparto industriale. Nel settore della Pubblica amministrazione, a causa della mancanza di rinnovi contrattuali, la dinamica risulta pressoché stazionaria.
Quest’ultimo aspetto segnala una situazione preoccupante. Si ha l’impressione, infatti, che la “rivolta sociale” della Cgil si spinga fino al punto di impedire i rinnovi dei contratti del pubblico impiego, nei settori dove riesce a imbastire una maggioranza con i sindacati di base, i suoi nuovi alleati, motivando questa linea di condotta con la mancata corrispondenza degli aumenti proposti dall’Aran alla perdita di potere d’acquisto dovuta all’impennata dell’inflazione.
Infatti, commentando i dati Oil, Maurizio Landini sottolinea proprio questo aspetto attribuendone la responsabilità al Governo: “Infatti, il Governo pretende di rinnovare i contratti pubblici praticando l’abbassamento dei salari stanziando un terzo dell’inflazione del periodo. Per questo non abbiamo sottoscritto come sono disposti a fare altre OOSS quei contratti e rivendichiamo la riapertura di un reale confronto”.
Inoltre, prosegue il leader della Cgil, “l’Esecutivo non prende in considerazione la detassazione degli aumenti salariali come da tempo chiediamo e non combatte il dumping attraverso una legge sulla rappresentanza, né sostiene la contrattazione attraverso l’introduzione del salario minimo“. “Le imprese, invece, – aggiunge Landini – devono garantire il rispetto dei tempi del rinnovo dei contratti e prevedere aumenti salariali ben oltre l’inflazione per recuperare anche le perdite dei periodi pregressi e redistribuire la produttività”.
“Ci batteremo – ha proseguito Landini – affinché i contratti vengano rinnovati per garantire giusti salari, diritti e tutele, a partire dallo sciopero nazionale del metalmeccanici di venerdì prossimo, 28 marzo”, insieme a una serie di fattori strutturali, a cominciare dal nanismo della struttura produttiva, dalla bassa produttività, in particolare nei servizi, dagli scarsi investimenti in innovazione tecnologica e formazione dei lavoratori”.
Il fatto è che le cause indicate dall’Oil non coincidono sempre con quelle denunciate dal Segretario. Osserva, infatti, nel suo Rapporto l’Organizzazione internazionale del lavoro che negli ultimi due anni la produttività è cresciuta più dei salari e quindi, in teoria, ci sarebbe stato uno spazio per far salire le retribuzioni. Del resto questa era un’indicazione della Banca d’Italia e dello stesso rapporto Draghi, allo scopo di potenziare il mercato interno come alternativa alle difficoltà delle esportazioni.
Il fatto è, sottolineano i ricercatori Oil che, nonostante la diffusione dei contratti nazionali di lavoro, che in Italia coprono la quasi totalità dei lavoratori (per cui non si capisce la necessità di una legge sulla rappresentanza), il rinnovo degli stessi non si è dimostrato, nella media, in grado di mantenere i salari almeno in linea con l’aumento dei prezzi.
Questo è successo anche perché il modello stesso della contrattazione appare inadeguato: da un lato, prendendo come riferimento un indice di promozione, l’Ipca, al netto dei prezzi dei beni energetici importati, non copre una delle voci che hanno gravato di più sui bilanci familiari, e dall’altro, demandando di norma la distribuzione dei guadagni di produttività ai contratti aziendali, offre questa possibilità solo a una minoranza di lavoratori, in genere quelli delle grandi aziende.
Non vi è cenno al salario minimo legale mentre viene in evidenza che il sistema contrattuale – per tanti motivi – non è in grado di trasformare la maggiore produttività in un corrispondente incremento delle retribuzioni. In sostanza negli anni scorsi le aziende avevano a disposizione risorse che i sindacati non sono stati in grado di redistribuire perché incaprettati nella ragnatela del primato della contrattazione nazionale di categoria costretta ad adeguarsi alle disponibilità delle imprese marginali, con tempi lunghi di rinnovo, inadeguati per cogliere i mutamenti che si verificano con sempre maggiore difficoltà. Basti pensare agli effetti dell’impennata dell’inflazione che si è verificata a cavallo del 2022 e 2023.
Per quanto riguarda la produttività, tuttavia, l’Italia è lontana dall’aver recuperato i suoi ormai storici ritardi. Osservando i livelli di crescita della produttività del lavoro emerge come l’Italia abbia registrato performance inferiori a quella della media dei Paesi ad alto reddito. Il confronto tra le due serie evidenzia che, tra il 1999 e il 2024, la produttività del lavoro nei Paesi ad alto reddito è aumentata del 30%, mentre in Italia è diminuita di circa il 3%.
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