Caro direttore,

colgo al volo la provocazione fatta da Massimiliano Ferlini e Guido Canavesi su queste colonne, ringraziandola allo stesso tempo per aver aperto un dibattito sul tema del salario minimo e delle tutele ai lavoratori. Gli autori sottolineano come “la contrattazione attraverso l’esercizio della rappresentanza è uno dei momenti di reale partecipazione sociale dei lavoratori e degli imprenditori associati che, attraverso i corpi intermedi, in una dinamica sussidiaria, definiscono le condizioni dei loro rapporti di lavoro a partire anche dalle condizioni economico-sociali contingenti”. Questo punto, teoricamente vero e condivisibile, si scontra con una prassi che è spesso diversa, più complessa, articolata e problematica.



In particolare, il problema di fondo è la rappresentatività delle organizzazioni dei datori di lavoro e, soprattutto, delle organizzazioni sindacali. Siamo infatti sicuri che i sindacati (e che i sindacati più noti sul pano nazionale) siano realmente rappresentativi delle istanze di tutti i lavoratori? Siamo proprio sicuri che le stesse rappresentanze sindacali siano in grado di comprendere le esigenze di un mercato del lavoro in rapidissima evoluzione, che chiede sempre più flessibilità, disponibilità dei dipendenti a crescere a formarsi a cambiare mansioni, orari e luoghi di lavoro?



I dati disponibili in materia di iscritti al sindacato sul totale della popolazione di lavoratori attivi in Italia sono pochi e vecchi, tuttavia l’esperienza mia e di molti colleghi evidenzia che sono sempre più le aziende, anche con ben più di 100 dipendenti, che non hanno una rappresentanza sindacale interna e i cui lavoratori ritengono di poter meglio tutelarsi in un rapporto diretto con i propri superiori gerarchici e con l’imprenditore. Soprattutto tra i giovani e soprattutto tra i lavoratori non assunti a tempo indeterminato prevale la convinzione che il metodo migliore per ottenere un aumento di stipendio e una progressione di carriera sia il duro lavoro, la formazione, il rapporto con i superiori gerarchici e piuttosto l’abilità nel cambiare lavoro trovandosi al posto giusto nel momento giusto. Mi è spesso capitato di inseguire funzionari di sindacati che nulla hanno a che fare con l’azienda per chiedere di firmare accordi sindacali necessari per ottenere la cassa integrazione o per permettere ai lavoratori di avere la detassazione sul premio di risultato. A volte mi chiedo perché? Che tutela dà a questi dipendenti che ci sia un timbro di un’organizzazione sindacale che nemmeno li conosce sulle regole per percepire il bonus di fine anno?



Riflettendo su questi temi mi domando se costringere le aziende e, a volte, gli stessi dipendenti a sottostare a rigidi schemi contrattati e decisi da persone a cui non hanno dato alcun tipo di mandato sia corretto.

La contrattazione collettiva, che ha tantissimi meriti nella storia della tutela dei diritti dei lavoratori, ha prodotto contratti collettivi, perfettamente validi con minimi salariali pari a meno di 800 euro lordi al mese (parlo del Ccnl servizi fiduciari, firmato da Cgil, Cisl e Uil). Forse lo stabilire un minimo salariale per legge, magari non uniforme su tutto il territorio nazionale ma riparametrato al costo della vita, potrebbe permettere di fissare una retribuzione minima da garantire a tutti i lavoratori, non solo dipendenti, offrendo così tutela a tutte le forme di lavoro, e semplificando le attività di verifica e controllo sia da parte dell’ispettorato del lavoro che da parte delle stazioni appaltanti, delle capogruppo, dell’Inps e dell’Inail, anche con l’utilizzo di sistemi informatici.

Questo potrebbe poi aiutare a valorizzare la contrattazione collettiva come migliorativa delle condizioni minime stabilite dalla legge e, in una dinamica realmente sussidiaria, nelle situazioni in cui c’è reale rappresentatività delle organizzazioni dei lavoratori.

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