Il nuovo Governo non ha ancora esplicitato cosa conta di mantenere o cambiare nelle politiche del lavoro fatte dal governo giallo-verde. I dati che vengono però forniti dai nostri centri statistici, nel caso specifico Inps, ci dicono che sia il reddito di cittadinanza che quota 100 non hanno ottenuto i risultatiti sperati. Misure di bandiera realizzate, ma bandiere che non hanno trovato buon vento per sventolare.



Anche il Decreto dignità non ha prodotto i risultati sperati. I dati Inps sul precariato riferiti ai primi sette mesi dell’anno ci dicono, se andiamo ai saldi dei diversi movimenti e trasformazioni contrattuali, che gli occupati sono complessivamente diminuiti in termini di ore di lavoro totali ed è peggiorata la qualità del lavoro. È questo il risultato di una misura che invece di accompagnare la tutela del lavoro a essere sempre più stabile e di qualità secondo le fasi del ciclo economico, ha privilegiato invece una restrizione della flessibilità mentre arrivavano i primi segnali di recessione economica. Il risultato è stato che le imprese hanno utilizzato i nuovi vincoli per diminuire l’occupazione ed effettuare sostituzioni degli occupati con un aumento del part-time involontario.



L’impressione che si trae dalle misure introdotte dal Governo precedente è che, anche se pensate per obiettivi sociali condivisibili, non tenendo conto della realtà, hanno ottenuto risultati opposti a quelli auspicati.

Un risultato analogo rischia di essere ottenuto dalle misure che si intendono adottare per il salario minimo. È certamente vero che i legislatori hanno, anche su questo tema come per altri di grande rilevanza, ritardato inspiegabilmente nel decidere. Corporativismi sindacali e ideologismi politici hanno continuamente rinviato una scelta su una misura che è in essere in tutti gli altri paesi europei.



Adesso però si corre il rischio che per recuperare il tempo perso si operi una scelta calata dall’alto e senza coinvolgere le organizzazioni sindacali, con il rischio di ottenere un risultato opposto a quello desiderato.

Qualora si fissasse un salario minimo orario troppo alto il risultato sarebbe di spostare migliaia di lavoratori verso il mercato nero del lavoro invece di estendere tutele e garanzie. Tutto il settore dei servizi alla famiglia e alla persona nella famiglia rischia di essere penalizzato assieme ai lavori creati dalla gig economy. Sono peraltro settori in cui l’occupazione è costantemente in crescita e un intervento improvvido potrebbe creare un grosso danno sociale. L’intervento sui minimi salariali non può che essere coniugato con il riconoscimento del valore dei contratti delle organizzazioni sindacali più rappresentative (si arrivi finalmente a certificare iscritti e rappresentanze). Per i settori nuovi o non coperti si tratta di fissare un minimo realistico comprensivo di Inps e Inail, ma chiarendo il valore solo orario e non di proiezione mensile o annuo. In alternativa indicare a quale contratto sia assimilabile per analogia di lavoro.

Cadere però nell’ideologia che l’unico lavoro tutelato è quello a tempo pieno con contratto a tempo indeterminato riproporrebbe un dualismo nel mercato del lavoro fra tutelati e non. Oggi probabilmente, considerando solo il settore privato, si rischierebbe di restringere le tutele salariali e non solo a una minoranza di lavoratori.

La stessa indagine Inapp sui lavoratori delle piattaforme (gig workers) li stima in circa 200.000 e si prevede che la crescita proseguirà nei prossimi anni interessando anche nuovi settori di attività. Per circa la metà dei lavoratori coinvolti si tratta di un secondo lavoro o di un reddito utile per sostenere una fase di studio e formazione. Occorre allora di trovare forme di tutela per salute e trasparenza (bloccare nuove forme di caporalato che stanno emergendo), ma non fermare un settore che creerà ancora nuovi posti di lavoro e dove anche il 20% dei lavoratori coinvolti privilegia un “cottimo” a servizio piuttosto che altre forme di salario.

Dal Governo ci si attende quindi che si torni a fare funzionare le politiche attive del lavoro correggendo quanto fatto con navigator e reddito di cittadinanza. La crisi che si preannuncia per l’industria come effetto della frenata dell’economia tedesca sta già facendo registrare una crescita di cassa integrazione e di nuova disoccupazione. La risposta strutturale non può che essere un forte impegno a favore di nuovi investimenti per la transizione di impresa 4.0 e per una nuova sostenibilità ambientale dei cicli produttivi. Questi sarebbero investimenti utili per affrontare il ciclo negativo salvaguardando l’occupazione e preparandoci con imprese rinnovate alla ripresa della domanda di beni industriali.

Nel frattempo, però, le politiche passive (Cig, ecc.) devono essere supportate da politiche attive per investire in maggiore occupabilità del capitale umano e dare sbocchi occupazionali a chi lavora in settori in trasformazione.

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