C’è un enorme problema salariale in Italia. La mancata crescita dei salari nel corso degli ultimi 15 anni ha creato una situazione sempre più difficile da affrontare. Vi sono poi attività che la recente crisi pandemica ha mostrato come indispensabili e che sono in fondo alla scala degli stipendi con pochissima possibilità di crescita durante la vita lavorativa. Gli effetti psicologici di questa situazione, accentuati dalla fase di lockdown, hanno portato chi possiede professionalità ad alta richiesta, a mettersi velocemente in mobilità per avere incrementi di reddito e situazioni lavorative più agevoli.
Quello di adeguare i salari è però un tema generale che se non affrontato porterà a scarsità di offerta di lavoro anche in professioni essenziali. Medici e infermieri sentono fortemente il richiamo delle possibilità che arrivano dai Paesi esteri dove carriere e salari sono molto più favorevoli di quelli del nostro Paese. Stessa situazione per molte attività sia nel pubblico che nel privato.
Due posizioni di pura demagogia si sono affacciate in questi giorni e rischiano di mettere il dibattito su una strada sbagliata. Non basta dire pagate di più il lavoro per ottenere il risultato. Soprattutto quando queste grida vengono da chi ha e ha avuto anche in passato la possibilità di incidere, attraverso la contrattazione o attraverso gli strumenti fiscali, per ottenere situazioni di maggiore equità.
Stessa sterilità dimostra la proposta di legiferare sul salario minimo come se bastasse questa misura a sistemare la situazione salariale del Paese. Sono due posizioni ancora legate all’illusione che si possa rispondere ai bisogni stampando e distribuendo moneta e che negano la dignità del lavoro.
La situazione, anche per il ritorno dell’inflazione, è invece da affrontare con serietà e avendo a cuore la possibilità di ottenere un salto nei salari reali che faccia emergere non il minimo salariale ma un salario giusto, capace di coprire i costi della vita e assicurare tranquillità e dignità ai lavoratori in ogni settore.
È di questi giorni la protesta dei lavoratori di cooperative di servizi culturali che lavorano presso musei e biblioteche del Comune di Milano che hanno un salario orario di 4 euro. La notizia, pur scandalosa in sé, non apparirebbe così strana se si tenesse d’occhio la tabella Istat sui salari orari del settore privato.
Il valore mediano a livello nazionale è di 11,40 euro l’ora. Significa che il 50% dei lavoratori italiani riceve meno di 11 euro ora per il proprio lavoro. La crescita dei lavori poveri sta tutto in questo dato. Per il settore alloggio e ristorazione il valore mediano è di 10 euro l’ora. Possiamo immaginare che sia ancora più ridotto per giovani che iniziano questa attività? E ci stupiamo che sia difficile reperirli senza riconoscimento di disagio, straordinari e festivi? Teniamo pure conto che il valore mediano nelle imprese sotto i 10 dipendenti del settore scende di un altro euro e di quasi due per la manodopera femminile.
Solo settori che maneggiano direttamente ricchezza (banche, assicurazioni e imprese dell’energia) hanno un salario mediano che supera i 15 euro l’ora e talvolta i 20. Si tratta quindi di impostare un lavoro di contrattazione differenziata per ottenere buoni e stabili risultati. La base non può che essere un accordo sullo sviluppo che veda Governo e parti sociali fissare un percorso di crescita che permetta di creare la ricchezza da distribuire.
L’azione sulla produttività dovrà essere sostenuta dagli accordi settoriali e aziendali per ottenere le migliori ricadute. Vi è bisogno però anche di interventi fiscali per aumentare il valore reale degli stipendi dei settori dove i salari mediani non garantiscono l’uscita dalla povertà. L’azione sui salari è indispensabile anche a livello macroeconomico per sostenere i consumi. Base dell’accordo triangolare non può che tenere conto di dover garantire la crescita della produttività di sistema, l’attenzione alla domanda di lavoro con un ulteriore rafforzamento del sistema duale e dell’apprendistato assieme a un’azione sulla offerta di lavoro con tagli fiscali ai salari più bassi e incrementi reali legati alla produttività e con riconoscimenti fiscali che favoriscano una redistribuzione a favore del lavoro.
Se guardiamo alle posizioni dei diversi attori in campo dobbiamo registrare un deficit preoccupante di consapevolezza. Fra gli attori sociali solo il presidente del Consiglio e la Cisl hanno chiaro che un patto per lo sviluppo è indispensabile per accompagnare la riuscita del Pnrr rendendolo funzionale anche a un disegno di riequilibrio delle ineguaglianze cresciute in questo periodo.
Confindustria e le altre confederazioni sindacali appaiono incapaci di uscire da una logica di conflittualità e rivendicazioni di bandiera senza avere una visione globale delle necessità del Paese. Ribellismo e corporativismo accomunano gruppi sociali che dovrebbero invece collaborare a un programma comune.
Anche fra le forze politiche stenta ad affermarsi una visione chiara di come ridisegnare percorsi di equità e mobilità sociale. Le forze populiste di fronte alle sfide della storia si stanno sciogliendo con posizioni sempre più inutili. C’è un fronte che si dichiara per la dignità del lavoro ma che non ha ancora chiarito le proposte operative e le conseguenti alleanze. La speranza viene dalle molte realtà sociali che si stanno organizzando per rispondere, anche dentro alle regole di mercato, con imprese dove al centro viene messo il valore della persona con salari e tutele dei diritti che possono diventare esempi per tutti.
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