Ancora una volta, dopo la manifestazione contro la precarietà promossa dal M5s, si è tornati a parlare di salario minimo.
A proposito di salari, una volta si diceva “al palo dell’inflazione”. Oggi, stante la spirale inflattiva, si direbbe “magari”. La questione salariale italiana – per quanto nota da qualche decennio negli ambienti del lavoro e degli studi – è emersa con forza a livello di opinione pubblica quando, a giugno 2022, l’Ocse ha diffuso una rilevazione dalla quale risulta che, negli ultimi trent’anni, l’Italia è l’unico Paese in cui i salari annuali medi hanno avuto un andamento negativo: sono infatti diminuiti del 2,9%. Val la pena di ricordare che, nella citata analisi Ocse, i salari sono espressi a parità di potere d’acquisto, così da consentire un confronto tra i diversi Paesi.
Nel 1990 la retribuzione reale italiana era superiore di quasi 5 punti alla media Ocse e sopra quelle di Spagna, Francia e Regno Unito; nel 2020 l’Italia non solo viene superata da Spagna, Francia e Regno Unito, ma anche da Slovenia, Israele e Irlanda, perdendo 12 posizioni.
Il potere d’acquisto dei lavoratori è aumentato in media del 18,4% nell’area Ocse e del 22,6% nell’Eurozona. Il confronto con le altre economie avanzate, come la nostra, è impietoso: in particolare, in Germania i salari sono cresciuti del 33%, in Francia del 31%; se poi guardiamo anche ad altri Paesi europei, in Belgio e in Austria del 25%, in Portogallo del 14% e in Spagna del 6%. Per quanto riguarda gli Stati scandinavi, questi registrano il +63% della Svezia, il +39% della Danimarca e il +32% della Finlandia.
Qualche mese dopo la diffusione della rilevazione Ocse, il consueto rapporto annuale del The European House Ambrosetti (si tratta del Global Attractiveness Index. Il termometro dell’attrattività di un Paese) rileva che la quota parte dei costi di produzione delle imprese italiane destinata ai salari e al lavoro dipendente è del 18,6%, valore inferiore del 6,3% rispetto alle imprese spagnole, del 7,1% alle imprese tedesche e del 8,2% rispetto a quelle francesi. Tutto questo, in una situazione di profitti in crescita: in Italia superiori dello 0,5% alla media europea, dell’1,1% rispetto alla Spagna, del 3,2% rispetto alla Germania e del 7,8% rispetto alla Francia.
Sono sufficienti questi numeri per capire come in Italia vi sia un serio problema legato alla retribuzione del lavoro. Del resto, il nostro modello contrattuale – sostanzialmente fermo al ’93 – non aiuta. La contrattazione di secondo livello, alla quale spetterebbe il compito di regolare la distribuzione della ricchezza prodotta, è troppo poco sviluppata. E nonostante molti tentativi per farla crescere, oggi possiamo dire che molto difficilmente uscirà dal perimetro delle imprese medio-grandi. Stiamo parlando del 5% del nostro sistema produttivo; il 95% delle nostre imprese, infatti, ha meno di 10 addetti (dati Istat): la micro-impresa, prevalentemente condotta secondo tradizioni familiari, è culturalmente lontana dalle logiche sindacali.
Perché, tuttavia, il salario minimo non è la soluzione a questo problema?
Perché è proprio la mancata distribuzione della ricchezza qui richiamata che rende particolarmente debole non i minimi, ma, piuttosto, il livello dei salari medio-alti. E, di questo, ce ne dà conferma uno studio comparato: in una rilevazione dello scorso anno, Eurostat ci dice che la paga oraria media lorda (nel 2021) in Italia è stata di 15,55 euro contro i 16,9 dell’Area Euro, i 19,66 della Germania e i 18,01 della Francia. La paga mensile lorda lo stesso anno è stata 2.520 euro in Italia, nell’area Euro 2.825, in Germania 3.349, in Francia 2.895. Quella annua 34.792 euro, nell’area Euro 38.559, in Germania 44.933, in Francia 37.956.
Come si evince da questi dati, i minimi retributivi italiani sono del tutto in linea con le medie europee. L’anomalia, come si diceva prima, sono i livelli medio-alti. E su questo varrebbe la pena di ragionare per trovare delle soluzioni che, tuttavia, non hanno a che fare con il salario minimo, ma piuttosto con un modello contrattuale che chiede qualche innovazione e con la mancanza di percorsi di carriera (vero motivo per cui i giovani vanno all’estero).
Inoltre, se l’obiettivo del salario minimo è rispondere a quella nebulosa dove non vi sono coperture contrattuali (leggi accordi diretti con aziende e/o ricorso a contratti cosiddetti pirata) val la pena di ricordare che i contratti firmati da Cgil, Cisl, Uil e da qualche sindacato autonomo coprono circa il 97% dei rapporti di lavoro subordinato (elaborazioni Adapt e Fondazione Anna Kuliscioff).
Il salario minimo legale non serve a nulla se non a creare difficoltà alla contrattazione collettiva. Certamente, il legislatore potrebbe estendere l’efficacia erga omnes della parte retributiva dei contratti maggiormente applicati. Ma, abbiamo visto, con benefici minimi.
Tuttavia, l’ipotesi del salario minimo di tanto in tanto torna a far discutere e viene agitata come la soluzione ai problemi del lavoro, peraltro mal posti e mal compresi. La precarietà, come questi dati chiariscono, ha una matrice del tutto diversa. E il salario minimo è solo una presa in giro per i lavoratori.
Twitter: @sabella_oikos
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