Che i salari in Italia siano bassi è cosa nota, una delle poche cose sulla quale opinione comune e analisi statistica si trovano d’accordo senza difficoltà.
Non solo i salari sono bassi, ma addirittura in calo. Se leggiamo i dati Ocse pubblicati a luglio vediamo che alla fine del 2022 i salari reali in Italia erano calati del 7,5% rispetto all’inizio della pandemia contro una media Ocse del 2,2%. L’Italia, inoltre, è l’unico Paese dell’Ocse che fra il 1990 e il 2022 ha visto una diminuzione dei salari, mentre quelli degli altri Paesi crescono.
Il problema dunque esiste e lo capiscono tutti (quando guardano la loro busta paga o quando leggono i dati), ma sulle ricette per porre rimedio alla situazione ci si divide.
Nell’incontro fra Governo e opposizione di ieri abbiamo visto l’ennesima carrellata di soluzioni contrapposte, in un incontro sul tema del salario minimo, non sul fatto che “Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa.” (articolo 36 della Costituzione italiana).
Proviamo a fare una sintesi delle proposte. Le opposizioni (con l’esclusione di Italia Viva) ritengono che per operare efficacemente sul problema dei salari sia necessario fissare il salario minimo per legge, alla cifra di 9 euro, e che sia inoltre necessario rafforzare la contrattazione collettiva, combattendo i cosiddetti “contratti collettivi pirata” stipulati da associazioni non rappresentative al solo scopo di tenere bassi i salari; per rendere effettiva l’attuazione, la proposta di legge delle opposizioni contiene una procedura giudiziale per punire chi non applica la norma. Con questa proposta di legge l’opposizione intende anche dare attuazione alla direttiva Ue 2022/2041 del Parlamento europeo sul salario minimo e condizioni di vita e di lavoro dignitose per i lavoratori europei.
Il Governo (con frequenti perplessità di Forza Italia) non ha nemmeno in questa occasione espresso una posizione chiara in merito a cosa fare, anche se aveva anticipato la lista delle cose da non fare, mettendo in questa lista gran parte delle richieste dell’opposizione. In realtà, il Governo ha operato nella direzione di ridurre temporaneamente le tasse sul lavoro (il cosiddetto “cuneo fiscale”), ha reso più facili i contratti a termine e abolito il Reddito di cittadinanza per le persone che possono lavorare. Come azione di politica attiva ha poi promesso di potenziare la formazione e di pubblicare un’App per l’incontro della domanda e offerta di lavoro (questa l’avevo già sentita…).
Alla riunione con le opposizioni il Governo ha completato il quadro: niente norme con un salario minimo prefissato, mandato al Cnel per studiare come intervenire sul lavoro povero. Non sono comparse le proposte preannunciate da Durigon sul Corriere, ad esempio per evitare il ribasso sul costo di manodopera negli appalti pubblici e introdurre premialità per chi rinnova i contratti tempestivamente.
Insomma, Governo e opposizioni paiono unanimi nel rafforzare il ruolo dello Stato e del debito pubblico, non quello della contrattazione e della produttività. Unanimi evitano di dare il via al processo di verifica della rappresentatività sindacale come previsto dalla Costituzione, evitano così l’unico strumento necessario a capire quali siano i contratti effettivamente validi, evitano di affrontare il tema della cooperazione spuria che consente lo sfruttamento dei lavoratori, evitano di affrontare l’emersione della “economia non osservata” (secondo Istat) ovvero del lavoro nero, che nel 2020 valeva circa 3 milioni di posizioni lavorative irregolari. Dobbiamo ricordarci che il cosiddetto mismatch non riguarda solo le competenze, ma anche i salari, e chi ha competenze e bassi salari se ne va all’estero, chi non ha competenze e bassi salari spesso se ne va al nero.
Evitano, Governo e opposizioni, di affrontare seriamente il tema delle politiche attive del lavoro: quando si arriva alla “effettività” delle misure, l’opposizione tira fuori un lavoro in più per la magistratura, il Governo rafforza il sabaudo principio di condizionalità (se non fai il bravo ti levo il sussidio!). Insomma, Governo e opposizioni hanno dato vita a uno scontro fra opposti statalismi.
Eppure in questi anni non sono mancati i richiami alla possibilità di far leva sulla capacità sociale del Paese, sul suo settore no-profit, sulle strutture capaci di solidarietà sociale e di bilanci in pareggio. La Corte Costituzionale con la sentenza 131 del 2020 ha chiarito che si può coinvolgere il Terzo settore nella co-programmazione e nella co-progettazione degli interventi pubblici anche a livello locale. Quando parliamo di lavoro, di formazione, di marginalità sociale e di politiche attive, si potrebbe, magari in accordo fra Governo e Regioni, rilanciare queste attività di co-progettazione?
Se si fallisce sul versante dell’inserimento lavorativo delle persone, se si fallisce nella loro cura, lo Stato non risparmia, ma finisce per spendere di più in sistemi di supporto sociale, sostiene più costi nel sistema sanitario, sostiene più costi nella repressione del crimine, e tre milioni di posizioni lavorative “non osservate” non sono “comunque reddito”, sono un costo presente e futuro per tutta la collettività.
Riprendere la via della sussidiarietà è l’unico modo che ha il Paese per produrre partecipazione, salari decenti e politiche sostenibili nel futuro.
E ci scusi il lettore se la cosa sembra lunga e complessa, ma negli ultimi anni la gara della politica a proporre cose veloci e semplici ha generato banalità e buchi di bilancio che il Paese non si può più permettere.
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