Il nostro viceministro Di Maio propone l’introduzione del salario minimo legale come condizione per rilanciare il contratto di governo con la Lega. “Al di sotto di una retribuzione oraria di 9 euro, non esiste dignità per il lavoro”, afferma il nostro pluri-incaricato ministro. Chiedergli una spiegazione ragionevole di cosa intenda per i 9 euro ora, se comprensivi o no degli effetti salariali e normativi indiretti, ovvero se è come declinarlo rispetto ai settori, alle qualifiche e ai diversi regimi di orario, è tempo sprecato. Cose troppo complicate, l’importante è fare credere agli italiani che ci pensa lui a difendere i salari dei lavoratori. In particolare quelli appartenenti al fantomatico 22% che secondo le statistiche dell’Inps, peraltro inaccessibili per chiunque voglia approfondire il tema, verrebbero remunerati a cifre inferiori.



La scelta del Movimento 5 stelle è comprensibile dal punto di vista politico. Una volta esaurito l’effetto del Reddito di cittadinanza bisogna pur inventarsi qualcosa di nuovo. Ma anche in questo caso, il nuovismo rischia di produrre esiti opposti ai desiderata annunciati. Il punto di partenza per analizzare questi effetti rimane l’analisi rigorosa dello stato delle politiche salariali in Italia e dell’impianto giuridico che le sostiene.



Come più volte ricordato dagli esperti in materia, in Italia esiste un orientamento giuridico, storicamente consolidato dai pronunciamenti della Corte Costituzionale, e dalle sentenze della magistratura, che attua quanto previsto dall’art. 36 della Costituzione in materia di salario equo, o giusto salario come preferiscono definirlo i giuslavoristi. Inteso, nel dettato costituzionale come retribuzione adeguata alla quantità e qualità della prestazione e comunque sufficiente a garantire una vita dignitosa per sé e per i propri familiari.

Ebbene, per gli orientamenti assunti dalla suprema magistratura, il giusto salario (e non il salario minimo) si configura con quello definito dai contratti collettivi sottoscritti dalle organizzazioni sindacali e imprenditoriali maggiormente rappresentative. E, come tale, applicabile a tutte le imprese e a tutti i lavoratori, indipendentemente dal fatto che le stesse, o gli stessi, siano associati alle organizzazioni firmatarie.



Anche grazie a questi orientamenti in Italia, secondo le comparazioni statistiche europee, la contrattazione collettiva categoriale sviluppata dalle principale Confederazioni sindacali e imprenditoriali viene applicata a circa l’80% del lavoro dipendente. Un risultato che ha pochi paragoni negli altri paesi europei, e in particolare, guarda caso, con quelli che hanno introdotto il salario minimo legale per supplire alle debolezze della contrattazione collettiva.

La vera carenza dell’impianto italiano non è affatto la carenza, nell’impianto normativo, di un salario minimo legale, ampiamente supplita da quella appena ricordata del “giusto salario”, ma nella mancata attuazione dell’art. 39 della Costituzione che propone di regolamentare la rappresentanza e la rappresentatività delle organizzazioni firmatarie dei contratti collettivi, per la finalità di dare compiuta attuazione all’applicazione erga omnes dei contratti sottoscritti. Una carenza che è stata utilizzata da organizzazioni imprenditoriali e sindacali, inventate ad arte, per sottoscrivere contatti di lavoro sottocosto. Quelli che nella vulgata corrente, vergogno definiti “contratti pirata”, che nell’ultimo decennio hanno contribuito, secondo il Cnel, a raddoppiare il numero dei contratti collettivi sottoscritti (anche se di fatto l’incidenza effettiva della loro applicazione è stata insignificante).

Pertanto, se effettivamente esistesse la volontà di estendere l’applicazione della contrattazione collettiva, con l’effetto di tutelare i lavoratori, la strada da percorrere diventa quella della regolamentazione della rappresentatività delle organizzazioni firmatarie. Diversamente l’introduzione di un salario minimo legale di 9 euro produrrebbe il risultato paradossale di legalizzare una remunerazione largamente inferiore agli importi salariali diretti e indiretti previsti dagli attuali contratti nazionali in essere, anche per le qualifiche più basse, in particolare per tutte le imprese che non aderiscono alle Confederazioni imprenditoriali firmatarie. Vanificando in questo modo l’attuale impianto giuridico fondato sulla attuazione erga omnes dei contratti e incentivando di fatto una competizione sleale tra le imprese.

Al dunque, benefici improbabili per i lavoratori, del resto mai adeguatamente chiariti da chi propone l’introduzione del salario minimo legale, e danni certi per la contrattazione collettiva. Tanto per confortare la costante della narrazione retorica dei nostri attuali governanti: i lavoratori li tuteliamo noi e non i sindacati.

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