La Commissione informazione del Cnel, presieduta da Michele Tiraboschi, ha terminato il lavoro istruttorio e ha fornito delle osservazioni conclusive e delle proposte, per quanto riguarda la tutela del lavoro povero, in vista della votazione conclusiva in Assemblea del 12 ottobre. I rappresentanti di Cgil e Uil (questi ultimi in precedenza si erano astenuti) hanno votato contro in Commissione; si vedrà nelle prossime ore se presenteranno degli emendamenti o se tireranno diritto su di una linea di opposizione non solo di merito, ma anche di metodo ritenendo non pertinente la decisione del Governo di affidare al Cnel il compito, poi correttamente svolto. A questo proposito il Presidente Renato Brunetta ha voluto ricordare a Maurizio Landini – strenuo difensore della Costituzione – che l’articolo 99 assegna al Consiglio di Villa Lubin il ruolo che ha svolto all’inizio di agosto fino al fatidico giorno in cui si tireranno le somme.



Nella prima parte del documento, già resa nota nei giorni scorsi, il Cnel ha fatto strame dei luoghi comuni e delle menzogne che hanno inquinato il dibattito, rimbalzando sui media senza che nessuno si prendesse il disturbo di una verifica prima di gettarsi a corpo morto sulle narrazioni della sinistra politica e sindacale. Si è chiarito così non solo che da Bruxelles non viene alcun ordine a introdurre il salario minimo per legge, ma che i dati della copertura della contrattazione collettiva (in larghissima prevalenza gestita dalle confederazioni storiche) sono tali da escludere l’esigenza di una legge e che comunque il numerino fatato di salario minimo (9 euro all’ora) contenuto nel pdl presentato dalle opposizioni (con l’esclusione di Italia viva) è vistosamente anomalo rispetto alle indicazioni della delibera (ovvero il 60% del salario mediano e il 50% di quello medio). I dati a disposizione indicano, al riguardo, un tasso di copertura della contrattazione collettiva che si avvicina al 100%: una percentuale di gran lunga superiore all’80% (parametro della Direttiva). Da qui la piena conformità dell’Italia ai due principali vincoli stabiliti dalla Direttiva europea e cioè l’assenza di obblighi di introdurre un piano di azione a sostegno della contrattazione collettiva ovvero una tariffa di legge.



Nella prima parte il documento seppellisce con alcune pale di letame la leggenda dei c.d. contratti pirata evidenziando che, a prescindere dal loro numero, questa pratica infame è subita dallo 0,4% dei lavoratori. E che vi sono le possibilità di venire a capo di queste pratiche sulla base delle norme già disponibili e del lavoro di verifica amministrativa effettuata dallo stesso Cnel in collaborazione con l’Inps e l’Ispettorato nazionale del lavoro, senza dover infilarsi in una legge sulla rappresentanza.

Il lavoro svolto in questi anni dal Cnel in collaborazione con l’Inps consente di segnalare al decisore politico e agli stessi attori sociali, con un sufficiente grado di attendibilità e senza sollevare le note e annose questioni di misurazione della rappresentatività dei soggetti firmatari rispetto ai vincoli contenuti nell’art. 39 della Costituzione, quali sono i Contratti collettivi nazionali di lavoro più diffusi e applicati. Anzi, molto opportunamente la Commissione propone una modifica dell’articolo 39 Cost. da decenni messo lì nella vigna a far da palo, inapplicato e inapplicabile, ma divenuto, per questi motivi, un reale ostacolo alla estensione erga omnes della contrattazione collettiva.



Poiché, come impostazione di carattere generale, il Cnel privilegia la linea della contrattazione collettiva, il documento non può non stigmatizzare la criticità del fenomeno dei ritardi nel rinnovo dei contratti collettivi. Al 1° settembre 2023 risulta che al 54% dei lavoratori dipendenti del settore privato si applicano Contratti collettivi nazionali di lavoro tecnicamente scaduti. Ne deriva che, pur in assenza di obblighi, il Cnel propone di introdurre un piano di azione a sostegno della contrattazione collettiva ovvero una tariffa di legge là dove il decisore politico intenda procedere diversamente. Se comunque si volesse sviluppare un parallelo tra le tariffe contrattuali e un’ipotetica tariffa legale, i parametri suggeriti dalla Direttiva europea portano a valorizzare – come già ricordato – il 50% del salario medio e il 60% di quello mediano. Sul punto, i dati ufficiali di Istat stimano in 7,10 euro il 50% del salario medio e in 6,85 euro il 60% salario mediano. I dati sono del 2019, a fine anno saranno a disposizione quelli più aggiornati su salari medio e mediano per il 2021, mentre non sono attendibili, per Istat, i dati del 2020 per le perturbazioni sul mercato del lavoro dovute alla pandemia.

Alcuni componenti della Commissione dell’informazione segnalano, tuttavia, l’opportunità di utilizzare altri criteri di misurazione del salario medio e mediano così da parametrarsi sui trattamenti retributivi dei soli lavoratori assunti con contratto a tempo indeterminato. Una proposta discutibile che tende soltanto e in modo strumentale ad aumentare gli importi dell’eventuale salario minimo. Quanto all’adeguatezza in senso stretto dei trattamenti retributivi stabiliti dai contratti collettivi è emersa un’ulteriore non uniformità di vedute tra i componenti della Commissione dell’informazione rispetto alle voci retributive (dirette e indirette) da prendere in considerazione per la definizione del minimo contrattuale. Questo anche in ragione del fatto che la struttura della retribuzione in Italia non è pensata in funzione di una tariffa oraria e che, diversamente da molti altri Paesi, esistono in Italia voci retributive sui generis come la tredicesima, la quattordicesima, l’elemento di garanzia rispetto alla contrattazione decentrata di produttività.

Negli ultimi decenni le stesse parti sociali hanno concentrato, specie in alcuni comparti, le risorse dei rinnovi contrattuali sempre meno sul minimo tabellare, quale elemento di misurazione della professionalità rispetto alle scale retributive, per introdurre nuove forme di distribuzione del valore economico del contratto in direzione della valorizzazione della produttività, della flessibilità organizzativa, del welfare contrattuale e della bilateralità. In proposito, la Commissione raccomanda un maggiore impegno in questa direzione anche nel caso delle Pmi.

Altro dato da tenere in considerazione, rispetto al problema del salario minimo e del lavoro povero, è quello delle giornate medie retribuite che, in Italia, sono 235 (Istat). Questo dato aiuta a spiegare molte cose sui salari degli italiani, soprattutto quando si passa ai settori economici e produttivi. Per esempio, nei servizi di alloggio e di ristorazione le giornate medie di lavoro sono solo 143. Difficile poi qui capire quante giornate “in nero” vanno a integrare le giornate di lavoro effettive. Una scarsa quantità di giornate di lavoro è uno degli elementi più rilevanti che concorrono a determinare il lavoro povero e si espone altresì a possibilità non quantificabili di lavoro nero.

Anche il differenziale retributivo per genere risulta significativamente correlato alla maggiore presenza di lavoro part-time tra le lavoratrici. Analogamente si può dire per la differenza retributiva per età che è strettamente connessa alla presenza di lavoro stagionale o a termine soprattutto nelle classi di età più giovani. Marcate differenze si riscontrano poi con riferimento all’area geografica analizzata e questo è un aspetto di particolare delicatezza e rilevanza rispetto a quanti prospettano oggi interventi normativi sul salario minimo differenziati su base territoriale così da tenere conto anche del diverso costo della vita.

Molto opportunamente, tenendo conto della sentenza “eversiva” della Cassazione (che attribuisce al giudice di dire l’ultima definitiva parola sulla corrispondenza della retribuzioni ai canoni dell’articolo 36 Cost.), la Commissione raccomanda di congegnare gli interventi in materia in modo tale da evitare sia una deriva giudiziale della retribuzione adeguata che una deriva politica della materia e, pertanto, avviando a soluzione gli snodi problematici che impediscono il virtuoso sviluppo della contrattazione collettiva di qualità.

Da valorizzare – anche con l’impegno del Governo e del Parlamento – è dunque la via tradizionale della contrattazione collettiva e cioè il contributo di quelle forze sociali che rappresentano, assumendosene la responsabilità, gli interessi della domanda e della offerta di lavoro. La contrattazione collettiva, quale sede storica per eccellenza della dialettica tra istanze economiche e istanze sociali presenti sul mercato del lavoro, non è infatti, secondo la Commissione, un semplice equivalente di una contrattazione economica individuale, ma piuttosto una vera e propria istituzione “politica” che concorre alla compensazione tra la domanda e l’offerta di lavoro. Questo non solo per i gruppi di lavoratori collocati al livello iniziale del sistema di classificazione professionale, posto che la contrattazione collettiva stabilisce minimi salariali per tutti i profili professionali.

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