L’emendamento approvato dalla maggioranza parlamentare sul testo del disegno di legge per l’introduzione di un salario minimo legale presentato dalle forze politiche dell’opposizione ha di fatto azzerato ogni possibile dialogo sul merito della proposta. Resta il fatto che l’evento ha ulteriormente radicalizzato le divergenze di opinione anche tra le parti sociali e aumentato le incognite sul futuro delle politiche salariali.
Per i promotori della proposta di introdurre il salario minimo, la mancanza di questo istituto nel nostro Paese rappresenta un’anomalia rispetto agli orientamenti che scaturiscono dalla Direttiva europea sulla materia e dalle decisioni adottate nella stragrande maggioranza dei paesi dell’Ue. L’argomento è alquanto singolare dato che i sei Paesi che non hanno introdotto il salario minimo legale sono tra quelli che, sulla base delle statistiche Eurostat utilizzate dalla Commissione europea per la redazione della Direttiva in questione, hanno realizzato i maggiori livelli di tutela utilizzando la contrazione collettiva. Mentre i due terzi di quelli che hanno adottato per legge il salario minimo risultano lontani dall’obiettivo indicato dalle Istituzioni europee di garantire il salario minimo sul livello desiderato (il 60% di quello mediano nazionale) per la maggioranza dei lavoratori dipendenti. Infatti, è a questi Paesi che la Direttiva pone il problema di introdurre norme e strumenti in grado di rafforzare il ruolo dei contratti collettivi per ottenere l’obiettivo di garantire la copertura delle tutele per almeno il 70% dei lavoratori dipendenti.
Nel merito le statistiche, alquanto trascurate, dell’Eurostat evidenziano che i contratti collettivi sottoscritti dalle Organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative in Italia garantiscono le tutele contrattuali a circa il 97% dei lavoratori dipendenti (94% secondo il Cnel). Risultato che ci colloca tra i più elevati livelli di tutela tra i Paesi dell’Ue e quello con il minore numero di lavoratori che hanno remunerazioni orarie inferiori al 60% del salario mediano (solo il 3,5%).
Le statistiche utilizzate dai promotori della proposta di disegno di legge sono altre. Non riguardano il livello dei salari minimi, ma l’andamento dei salari medi di fatto dei comparti privati dell’economia che negli ultimi 30 anni hanno riscontrato una decrescita del valore reale e un progressivo distanziamento dalla media dei Paesi. La causa di questo scostamento è motivata dalla lenta crescita della produttività e della bassa incidenza della quota dei lavoratori con media e alta qualificazione sul complesso degli occupati.
Il valore orario del salario minimo proposto nel disegno di legge, i 9 euro per ora di lavoro calcolando anche l’incidenza del salario differito (tredicesima e Tfr), che comprende nella stima anche i lavoratori domestici e dei comparti Altri servizi (pulizie, vigilanza, alcune attività della logistica, ricreazione e spettacolo), risulta superiore a quello mediano (7,5 euro). L’introduzione di un livello base delle retribuzioni più elevato non comporta solo costi aggiuntivi per la quota dei lavoratori (pochi) con retribuzioni inferiori ai 9 euro, ma impone di fatto di revisionare verso l’alto anche le retribuzioni dei lavoratori più qualificati vanificando il ruolo della contrattazione collettiva. Nel Paese che riscontra la maggior adesione ai contratti di lavoro significa assimilare la dirigenza sindacale a un’accozzaglia di sprovveduti incapaci di fare il loro mestiere. A quanto pare, un’opinione condivisa anche da una buona parte dei sindacati, in particolare della Cgil e della Uil, che hanno dato l’adesione a tale proposta.
In alcuni settori i bassi livelli di produttività, e la presenza di una quota rilevante di lavoro sommerso, sconsigliano le rappresentanze di categoria, comprese quelle di Cgil e Uil, di aumentare oltre una certa soglia i costi del lavoro per non lasciare il campo alla concorrenza sleale. Nei servizi alle persone il problema risulta aggravato dalla sostenibilità dei costi del lavoro per le famiglie. Un tema che riguarda poco meno di un milione di colf e badanti che risultano regolarizzate in tutto o in parte oltre un numero indefinito di prestazioni sommerse. Una realtà talmente evidente da indurre gli stessi sostenitori del salario minimo legale a proporre per il lavoro domestico una deroga al salario minimo (e di conseguenza una buona parte dei potenziali 3 milioni di beneficiari dichiarati).
Buona parte del salari annui che si assestano al di sotto di quello mediano non è dovuta al valore ridotto delle retribuzioni orarie, ma alla quota ridotta delle ore effettivamente lavorate, ovvero a quelle formalmente denunciate nei comparti che registrano un’elevata stagionalità, e una rilevante componente di lavoro sommerso. Se l’analisi è corretta, non si comprende quale effetto miracolistico possa determinare l’introduzione del salario minimo se non quello di aumentare il potenziale del lavoro sommerso e della concorrenza sleale.
All’opposto l’introduzione del salario minimo legale offrirà lo spunto a una miriade di imprese di fuoriuscire dal vincolo di applicare i contratti collettivi imposto dall’attuazione dell’art. 36 della nostra Costituzione (il diritto ad un giusto salario rapportato alle prestazioni professionali svolte e ai bisogni familiari), che nell’interpretazione consolidata della Corte Costituzionale viene attuato prendendo a riferimento i contratti collettivi sottoscritti dalle organizzazioni datoriali e sindacali maggiormente rappresentative.
Il tentativo di conciliare l’introduzione dell’importo salariale minimo con la consolidata applicazione dell’art. 36 della Costituzione sul giusto salario appare maldestro. Applicando il salario minimo legale e le altre norme legislative ogni impresa risulta in via di fatto esentata da altri obblighi che possono solo derivare dalla libera adesione, o per via dai vincoli assunti con le rappresentanze sindacali, ai contratti collettivi.
L’introduzione forzata di un salario minimo non offre soluzioni credibili alle retribuzioni più basse e rischia seriamente di compromettere i punti di forza del nostro sistema di tutele. Resta comunque aperta la questione salariale in Italia che deve essere affrontata su tre versanti: la crescita degli investimenti nei comparti con bassa produttività; l’aumento dei salari rapportati ai risultati delle imprese; la valorizzazione del lavoro manuale esecutivo. Politiche che devono tener conto delle tre macro tendenze che caratterizzeranno le presenti e future dinamiche economiche: la crescita degli investimenti digitali; una domanda di lavoro qualificato che risulta superiore all’offerta di lavoro disponibile e coerente con i fabbisogni; la riduzione delle persone in età di lavoro. Un contesto che presenta diverse criticità, ma che nel contempo risulta assai favorevole per cogliere gli obiettivi di migliorare le condizioni di lavoro e le retribuzioni. Ma per raggiungere questi obiettivi servono politiche industriali e del lavoro che riescano a coniugare la crescita degli investimenti e le competenze dei lavoratori, con nuovi modelli di contrattazione integrati con le dinamiche delle imprese e dei territori. Un approccio culturale che purtroppo riscontra scarse adesioni.
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