L’aumento del numero dei lavoratori poveri è diventato il vero marcatore della campagna a sostegno dell’introduzione del salario minimo legale in Italia. I leader dei partiti politici dell’opposizione, che hanno presentato un disegno di legge per tale scopo, lo utilizzano come l’argomento principale. Che nei sondaggi di opinione sembra riscuotere un grande consenso popolare anche tra gli elettori dei partiti che sostengono il Governo. Al punto dall’essere considerato un tema centrale anche dalla presidente del Consiglio Giorgia Meloni e da diversi esponenti delle forze politiche della maggioranza, che si sono resi disponibili per un confronto sulla materia nei prossimi mesi. L’incarico conferito al Cnel di effettuare un’istruttoria sulle criticità delle politiche salariali è un’occasione da non perdere per tentare di ricostruire una lettura condivisa con i principali protagonisti del mondo del lavoro.Vista con sospetto dai promotori del disegno di legge che temono la perdita del ruolo di interlocutori primari acquisito nei tempi recenti.
La Segretaria del Partito democratico e il Presidente del M5S citano i numeri: sarebbero oltre 3,5 milioni le persone che, pur lavorando, si ritrovano in condizioni di povertà. Oltre 5 milioni quelle che per condizioni lavorative, le basse qualifiche e i rapporti di lavoro atipici, sono esposte a tale rischio. Nelle statistiche ufficiali non si trovano dei riscontri tangibili per questi numeri. La più recente indagine Eurostat (2021 su 2019) offre una stima dei lavoratori poveri in Italia pari all’11,6% del totale degli occupati, pari a 2,6 milioni di persone (analogo a quello dell’indagine del 2017), rispetto alla media europea dell’8,9%.
Il numero che si avvicina alla propaganda dei principali leader dell’opposizione è quello stimato da una Commissione nominata per lo scopo dall’ex ministro del Lavoro Orlando coordinata dall’economista dell’Osservatorio Andrea Guarnero. Nella relazione finale, pubblicata nel gennaio 2022, la stima dei lavoratori poveri nell’anno preso a riferimento, (2017) viene quantificata nel 13,2% del totale degli occupati, equivalenti a poco più di 3 milioni di persone, superiore rispetto all’11,8% rilevato dell’Eurostat.
La diversità della stima viene motivata da un’esplicita contestazione del metodo utilizzato dalle statistiche europee per stimare il numero dei lavoratori poveri (le persone in età tra I 18 e i 64 anni che lavorano più di 6 mesi nel corso dell’anno, appartenenti a nuclei familiari con un reddito disponibile inferiore al 60% di quello mediano). Secondo gli esperti della Commissione, il riferimento al reddito familiare comporta una sottovalutazione: dell’esposizione delle singole persone, soprattutto per quelle occupate per meno di 6 mesi nel corso dell’anno, per l impossibilità delle stesse di rendersi autonome dalla famiglia di origine; e della specificità della condizione delle donne che risultano più esposte al rischio delle prestazioni a orario e salario ridotto anche in presenza di un reddito familiare superiore alla soglia di povertà.
Per effettuare le stime richiamate, il gruppo di lavoro ha utilizzato i dati provenienti dal sistema Losai-Inps: le basi salariali relative alle contribuzioni previdenziali di un campione rappresentativo dei lavoratori iscritti all’Istituto nazionale di previdenza sociale. La stima non rileva gli importi salariali orari, ma il valore reale complessivo della base salariale settimanale o annuale delle retribuzioni. Per questi lavoratori l’Inps evidenzia la condizione retributiva individuale senza alcuna relazione con quella del nucleo familiare.
È un’analisi delle persone occupate che segnala i redditi da lavoro individuali inferiori al 60% del salario mediano, che è l’indicatore utilizzato dall’Ue per valutare il livello di tutela adeguata dei salari minimi orari. Nel caso specifico, però, senza offrire la valutazione dell’importo delle retribuzioni orarie del contratto olfattivo applicato. Infatti, nella relazione finale si evidenzia che la condizione di lavoratore povero dipende soprattutto dalle settimane lavorate nel corso dell’anno. L’aumento del lavoratori poveri tra il 2006 e il 2017, oltre un milione, risulta essenzialmente motivato dal parallelo incremento dei contratti atipici, in particolare dei rapporti a termine e a part-time involontario derivante in particolare dall’aumento del numero degli occupati nei comparti dei servizi ad alta intensità di lavoro e da una forte mobilità del personale.
Il metodo utilizzato per calcolare i lavoratori poveri sulla base del reddito da lavoro ufficialmente dichiarato per i singoli lavoratori, anche se significativo per valutare la condizione di genere e quella generazionale, trascura colpevolmente la funzione importante del tasso di occupazione nel contrastare la povertà dei nuclei familiari. Inferiore di 9 punti rispetto alla media europea per un equivalente di 3,5 milioni di occupati a parità di popolazione. Un divario di mancati introiti nelle famiglie che spiega la maggior esposizione all rischio di impoverimento delle persone e dei nuclei di appartenenza rilevata da altre indagini dell’Istat.
Inoltre, l’analisi del gruppo di lavoro trascura del tutto l’incidenza delle sotto dichiarazioni dei redditi da lavoro legata alle prestazioni sommerse. Nonostante i settori caratterizzati dai bassi salari, e dallo scarso impiego dei lavoratori nel corso dell’anno, coincidano in modo evidente con quelli rilevati dall’Istat per l’incidenza elevata del lavoro sommerso, che comportano tuttora, sulla base delle informazioni fornite dall’Agenzia delle Entrate, una sottrazione di oltre 80 miliardi di euro di prestazioni non dichiarate.
L’analisi e gli argomenti adottati dalla Commissione Guarnero orientano anche le proposte finali: a) di rafforzare i salari minimi con un concorso della contrattazione collettiva o in alternativa con una legge che vincoli il salario minimo orario, ovvero con una modalità mista da sperimentare d’intesa con le parti sociali in alcuni settori caratterizzati da basse retribuzioni; b) di consentire con esenzioni fiscali, la cumulabilità tra i sostegni al reddito e i bassi salari, con esplicito riferimento a una proposta avanzata della Commissione Saraceno per la riforma del Reddito di cittadinanza (recepita nella legge di riforma recentemente approvata dal Parlamento); c) di introdurre una serie di criteri per valutare la rappresentatività delle associazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori che sottoscrivono i contratti collettivi anche per contrastare la concorrenza sleale generata dai cosiddetti contratti pirata.
Per queste finalità la Commissione suggerisce di affidare al Cnel una specifica istruttoria coinvolgendo le parti sociali rappresentate nell’organismo.
Il disegno di legge per l’introduzione del salario minimo legale presentato dalle forze politiche dell’opposizione ricalca l’analisi svolta dalla Commissione Guarnero: aumentando per fini di propaganda il numero dei lavoratori poveri; trascurando completamente il ruolo delle parti sociali sulla base del presupposto, del tutto infondato, che esista una relazione diretta tra le basse retribuzioni dei salari minimi previsti dai contratti collettivi sottoscritti dalle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative e la crescita dei lavoratori poveri.
Nel frattempo il mercato del lavoro italiano sta andando nella direzione opposta. Rispetto al 2017 (anno di riferimento della relazione Guarnero) l’occupazione è aumentata di 788 mila unità, del tutto coincidente con la crescita dei rapporti di lavoro a tempo indeterminato (+797 mila), a fronte di una riduzione del numero delle persone in cerca di lavoro (-912 mila) e di quelle inattive (-809 mila).
Dopo gli anni della pandemia le domande per il Reddito di cittadinanza sono crollate di circa un terzo, soprattutto nella quota delle persone in età di lavoro e con percorsi lavorativi alle spalle.
Queste tendenze sono destinate a proseguire nei prossimi anni, in assenza di eventi traumatici per l’economia, per via dell’aumento della domanda di lavoro qualificato e della riduzione demografica del numero delle persone in età di lavoro.
Questi numeri vengono accuratamente trascurati dai sostenitori dell’intervento dello Stato per stabilire per legge il valore delle retribuzioni, per introdurre vincoli per i rapporti a termine e a part-time, per aumentare i sostegni assistenziali. Formule tutt’altro che innovative, dato che negli ultimi 15 anni sono state quelle prevalenti adottate dai Governi di varia estrazione politica, con gli esiti fallimentari conclamati, ma che paradossalmente vengono utilizzati per riproporre le stesse terapie.
La questione salariale esiste, eccome, ma non coincide affatto con l’esigenza di incrementare per legge i salari minimi, o di aumentare i trasferimenti a carico dello Stato per sostenere i redditi da lavoro. Il modello di contrattazione, e quello redistributivo con il concorso dello Stato, risultano del tutto inadeguati per favorire la crescita della produttività, un maggiore utilizzo delle tecnologie e delle risorse umane, le condizioni di lavoro e i salari di qualità. Scindere la questione salariale dalla crescita della produttività e dalla qualificazione delle risorse umane è un errore imperdonabile, soprattutto di fronte all’evidente difficoltà del sistema delle imprese di reperire le risorse umane coerenti con i fabbisogni del sistema produttivo.
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