Nel dibattito sulle conseguenze economiche della pandemia poche voci hanno prestato attenzione a quelle sociali. La speranza che ci sia una forte ripresa economica capace di creare le risorse necessarie per dare a tutti il modo di recuperare le perdite economiche appare ancora come prevalente.

Il prolungarsi della crisi sanitaria, le incertezze degli interventi regolativi dell’ultimo periodo e la crescente differenza nelle scelte fra i diversi Paesi europei rischiano di accentuare paure irrazionali e comportamenti depressivi. L’asimmetricità con cui la crisi ha colpito il lavoro fra i diversi settori dell’economia sta accentuando le differenze nella distribuzione dei costi economici e anche nella possibilità di uscire rapidamente dalla situazione di difficoltà.



Ciclicamente escono indagini economiche che scoprono come, proprio per le caratteristiche particolari di questa crisi, la distribuzione del reddito sta premiando pochi già ricchi e penalizza la parte inferiore dei ceti sociali. È abbastanza intuitivo comprendere che Amazon, in un periodo in cui l’online era pressoché l’unico modo di comprare beni necessari, abbia prodotto utili stellari per i suoi azionisti. Altrettanto evidente è che le grandi catene dell’organizzazione turistica e dell’hotellerie hanno registrato perdite e non sono ancora in grado di assicurare la ripresa del lavoro per tutti i loro dipendenti.



Con il perdurare della crisi si accentua però l’evidenza del disagio che caratterizza la situazione del lavoro. Cresce la quota del lavoro non dignitoso caratterizzato da scarse tutele, poche garanzie su sicurezza sul lavoro e sicurezza sociale, difficoltà nella rappresentanza sindacale e con salari che non permettono una vita famigliare dignitosa. Già nella prima fase della crisi pandemica era emerso come alcune figure professionali che erano diventate indispensabili erano poi trattate economicamente e socialmente con scarso riconoscimento. 

Se questo tema della valorizzazione del lavoro si presenterà come tema centrale nel percorso di uscita dalla crisi, già oggi, si presenta come urgente il tema del lavoro povero. 



L’Europa ha indicato già da tempo l’urgenza di intervenire con politiche comuni fra i diversi Paesi aderenti per affrontare il tema del lavoro dignitoso. Intervento principale, anche se non unico né esaustivo, è ritenuto quello dell’introduzione del salario minimo. Provvedimento urgente di fronte al crescere di nuovi settori economici (vedi gig economy) e alle conseguenze di scelte di delegificazione liberista operate negli anni passati. Valore più volte affermato dall’Unione europea è il lavoro come base della partecipazione alla costruzione del futuro comune. Per questo sono centrali il diritto al lavoro e i diritti del lavoro nella costruzione dell’Europa sociale. Non si può non reagire di fronte all’evidenza che crescono i lavoratori che, nonostante risultino occupati, non riescono a uscire dal livello di povertà.

Anche il ministero del Lavoro italiano ha affrontato il tema. Nei giorni scorsi sono state presentate le conclusioni del gruppo di lavoro istituito per definire interventi e misure di contrasto contro la povertà lavorativa nel nostro Paese. La definizione di povertà fissa l’asticella al 60% del reddito mediano. Ossia chi guadagna meno del 60% del reddito che interessa il 50% dei lavoratori è da ritenersi povero. Circa un quarto dei lavoratori ricade in questa fascia. Sono soprattutto quei lavoratori che lavorano solo alcuni mesi all’anno, a tempo parziale o autonomi.

Nelle conclusioni del documento vengono avanzate cinque proposte di iniziativa che vengono ritenute efficaci solo se prese nell’insieme. Singoli interventi sarebbero limitati e in un qualche caso addirittura dannosi senza il sostegno di altri.

Le prime misure riguardano l’introduzione di minimi salariali adeguati e certi supportati da una rafforzata vigilanza documentale attraverso dichiarazioni delle aziende e dei lavoratori.

Segue una proposta redistributiva del reddito con misure di in-work benefit. Sono forme di sostegno al reddito di chi lavora e sosterrebbe il lavoro regolare. Richiede di rivedere un insieme di misure esistenti, dal Reddito di cittadinanza agli 80 euro e anche il nuovo assegno unico per i figli.

Quarto è un insieme di proposte tese ad aumentare consapevolezza e convenienza sia per le imprese che per i lavoratori per il lavoro regolare e per la trasparenza dei sistemi di welfare.

Infine, si propone di uniformare, rivedendole, le definizioni europee di lavoratore povero prendendo in considerazione anche lavori temporanei più brevi di quanto oggi fissato (sette mesi lavorativi minimo).

Il documento è sicuramente una buona base per affrontare finalmente un tema che col tempo diventa sempre più urgente e socialmente importante.

La questione principale è l’introduzione del salario minimo. Come noto vi è una diffusa contrarietà al fatto che sia fissato per legge. Anche la direttiva europea indica nell’accordo contrattuale la via maestra per quei Paesi, come l’Italia, dove il sindacato esercita un importante ruolo di riferimento.

L’incrocio fra riconoscimento costituzionale dei sindacati, ancora incerti nell’accettare questa scelta, e riconoscimento dei minimi salariali fissati dai contratti settoriali a livello nazionale è ancora un freno che rischia di fare perdere molto tempo.

Il documento indica per questo una soluzione ponte. L’idea è di fissare, per un periodo sperimentale, minimi salariali per legge o estendere griglie salariali basate sui contratti collettivi per i settori non coperti. Il periodo sperimentale dovrebbe assicurare di arrivare in fondo con una proposta condivisa con le parti sociali.

La proposta sperimentale ha il grande pregio di rompere il lungo immobilismo che ha caratterizzato questo tema. L’economia delle piattaforme ha reso evidente a tutti che la tutela dei lavoratori chiede più velocità di reazione da parte delle rappresentanze e da parte della politica.

Il segnale che si sta imparando la lezione delle nuove realtà sarebbe di arrivare con una proposta dei sindacati dei lavoratori già nella prossima settimana rendendo inutile la fase sperimentale. Sarebbe un passo verso la definizione di un patto per il lavoro che dovrebbe sorreggere tutta la fase del programma Next Generation Eu per restituire dignità e valore al lavoro.

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