La gestione dell’attuazione della Direttiva europea sul salario minimo, assunta in presa diretta dalle rappresentanze politiche dell’opposizione parlamentare che hanno presentato un Disegno di legge sulla materia, mette in evidenza una crisi delle relazioni sindacali che non ha precedenti storici. L’evoluzione è paradossale, se si tiene conto che l’Italia risulta esentata dall’applicazione della citata Direttiva visto che i livelli di tutela dei lavoratori garantiti dai contratti collettivi risultano di gran lunga superiori all’80% degli occupati, parametro preso a riferimento dal dispositivo europeo per esentare gli Stati aderenti dalla sua applicazione e per obbligare gli altri, compresi quelli che hanno già introdotto il salario minimo legale, ad adeguare le proprie normative per rafforzare il ruolo della contrattazione collettiva.



La scelta operata dal Governo di affidare al Cnel un’indagine sulla efficacia delle politiche salariali per offrire una lettura condivisa sull’evoluzione dei minimi salariali e dei redditi da lavoro che risultano inferiori al 60% del valore mediano (l’indicatore utilizzato nella Direttiva europea per quantificare il fenomeno dei bassi salari) deriva dalla volontà conclamata di non intervenire sulla materia con un atto legislativo e di consentire alle parti sociali, ampiamente rappresentate nell’organismo in questione, di esprimere la loro opinione sulla materia. Ma è anche il formale riconoscimento dell’evidenza di un problema, accentuato dalla ripresa dell’inflazione che ha comportato una svalutazione dei salari reali, che non viene adeguatamente riscontrato dalla contrattazione collettiva. La crescita dei prezzi e dei profitti aziendali risulta abbondantemente al di sopra degli aumenti dell’energia che hanno innescato l’inflazione riducendo la quota del reddito prodotto che viene destinata ai salari. Un risultato influenzato dal mancato rinnovo di numerosi contratti collettivi, in particolare nei comparti dei servizi privati, e che riguarda la maggioranza dei lavoratori dipendenti privati.



Il tema della tutela dei salari e redditi da lavoro è stato sostanzialmente affidato allo Stato e all’aumento della spesa pubblica, in continuità con gli interventi messi in campo durante la pandemia sanitaria. Ma la tendenza è in atto da alcuni anni, a partire dagli 80 euro mensili del Bonus Renzi del 2015, e prosegue tutt’ora con la riduzione del pagamento dei contributi previdenziali sulle retribuzioni lorde fino ai 35 mila euro. Interventi che si aggiungono alla miriade dei bonus che continuano a essere erogati verso i redditi medio bassi con l’utilizzo dei requisiti del reddito familiare dell’Isee.



Come segnalato dalle indagini dell’Istat e dell’Eurostat queste tutele si sono rivelate particolarmente efficaci per i redditi e i salari medio bassi, ma non per il resto della popolazione lavorativa. Negli ultimi 15 anni la decrescita dei salari medi italiani è dovuta in particolare a due fattori: la riduzione della quota dei lavoratori occupati con qualifiche medio alte; l’aumento dei contratti di lavoro part-time e a termine nei settori a bassa produttività e con rilevanti quote di lavoro sommerso. Fattori che non possono di certo essere rimediati con il mero incremento dei salari orari minimi stabiliti dai contratti collettivi o dalla legge. In altre forme, il dibattito italiano sulle politiche salariali sta rimettendo in campo l’idea che i salari possano essere considerati come una variabile indipendente dalla crescita economica. Estesa negli anni recenti anche al diritto di poter usufruire di un reddito anche per le persone che non lavorano pur essendo in grado di farlo.

Come contrastare il fenomeno del lavoro sommerso è una problematica estremamente seria e che merita interventi di varia natura. Ma nel caso specifico un aumento non ponderato dei salari orari minimi potrebbe generare l’effetto opposto a quello desiderato. L’esempio concreto è rappresentato dall’adeguamento automatico all’inflazione dei salari delle colf e delle badanti entrato in vigore a inizio anno (per un importo medio di 100 euro) che ha generato una riduzione delle ore ufficiali dichiarate all’Inps da parte dei dei datori di lavoro familiari.

L’andamento del mercato del lavoro negli ultimi due anni offre alcune indicazioni su come impostare una politica del lavoro coerente con gli obiettivi della crescita dei livelli occupazionali e del valore dei salari. L’andamento della domanda di lavoro qualificato risulta superiore alle disponibilità dell’offerta di lavoratori disponibili in relazione ai requisiti professionali richiesti. Queste tendenze hanno modificato gli orientamenti delle imprese e favorito: la crescita degli occupati con rapporti di lavoro stabili (più di mezzo milione rispetto all’agosto 2022); un aumento delle settimane ufficialmente lavorate; una mobilità del lavoro orientata dalla ricerca di migliori opportunità di reddito. Lo saranno anche nei prossimi anni per la riduzione della popolazione in età di lavoro e per l’ ulteriore crescita della domanda di lavoro qualificato. Le condizioni ideali per sviluppare: le dinamiche salariali più attrattive; gli investimenti per accrescere l’utilizzo delle tecnologie, la produttività e le competenze delle risorse umane. La carenza di risposte adeguate comporterà un sottoutilizzo delle potenzialità della crescita e un aumento dei differenziali tra i sistemi produttivi, i territori e nel mercato del lavoro. A offrire buona parte di queste risposte dovrebbero essere i protagonisti diretti del modo del lavoro a partire da coloro che ne rivendicano la rappresentanza.

Ma, a quanto pare, è ritornata in auge una versione aggiornata del salario da considerare come una variabile indipendente dalle dinamiche reali dell’economia, teorizzata negli anni ’70 dello scorso secolo per giustificare le rivendicazioni salariali non compatibili con l’andamento della produttività. Nella nuova versione non dovrebbero essere le imprese ad assecondare la richiesta, ma dovrebbero essere lo Stato e i cittadini contribuenti a sostenere l’onere di finanziare i salari definiti dal Parlamento. Un attacco frontale all’impianto giuridico, orientato dai pronunciamenti della Corte Costituzionale relativi all’attuazione dell’ art. 36 della Costituzione sul diritto del lavoratore di avere un giusto salario rapportato alle prestazioni professionali e bisogni familiari, che prendono a riferimento per lo scopo i livelli salariali previsti dai contratti collettivi sottoscritti dalle associazioni maggiormente rappresentative dei datori di lavoro e dei lavoratori.

A caldeggiare questa deriva, puntualmente sostenuta da una corrente di pensiero della Magistratura che rivendica la titolarità di stabilire i parametri per valutare la congruità sociale delle retribuzioni, è la Cgil. Sulla base dei numeri, il principale attore protagonista dei presunti fallimenti del sistema di contrattazione, ma che per l’occasione ha pensato bene di rivestire il ruolo del critico d’arte. Un approccio sbagliato, ma che rivela l’assenza di un efficace dialogo sociale, la mancata assunzione di responsabilità da parte delle Associazioni rispetto all’esigenza di rinnovare i contratti collettivi per offrire una risposta ragionevole alla tenuta dei salari di fronte all’evidente ripresa dei profitti aziendali.

Le proposte che scaturiranno dal confronto tra le parti sociali nell’ambito del Cnel rappresentano una sorta di cartina tornasole per comprendere il futuro delle relazioni sindacali e del ruolo dei corpi intermedi nella governance delle politiche economiche e sociali.

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