Prosegue la serie di approfondimenti dedicati al tema del salario minimo, aperta dall’articolo di Ferlini e Canavesi, a seguito della direttiva europea in materia
Le proposte legislative avanzate nella legislatura in corso in materia di salario minimo legale si sono arenate nelle sabbie dell’emergenza pandemica; di salario, però, è prevedibile che si torni a parlare presto, non solo perché permane l’emergenza costituita dai lavoratori che percepiscono un salario inferiore alla soglia di povertà, ma anche perché, essendo quello dei working poors un fenomeno non solo italiano, la stessa Unione europea si è fatta promotrice di un’iniziativa legislativa, esitata ad oggi nella proposta di direttiva del 28 ottobre 2020 “relativa a salari minimi adeguati nell’Unione europea”.
Questa proposta si fonda sull’assoluta centralità del principio di sussidiarietà, in una materia in cui il diritto dei lavoratori a una retribuzione equa s’intreccia con l’autonomia dei corpi intermedi rappresentativi dei lavoratori e dei datori di lavoro: infatti, lungi dall’imporre l’adozione di una legge nazionale che fissi il salario minimo, la proposta di direttiva lascia gli Stati membri liberi di fissare salari minimi legali, oppure di garantire a tutti i lavoratori l’applicabilità del salario minimo stabilito dai contratti collettivi.
L’impostazione “sussidiaria” si riflette anche sulla modalità con cui la proposta affronta il problema della “adeguatezza” del salario minimo: le prescrizioni che essa detta sul punto trovano, infatti, applicazione, solo nel caso in cui gli Stati membri adottino un salario minimo legale, mentre non vincolano la contrattazione collettiva.
Ciò è coerente con quanto emerge dall’analisi comparata europea, la quale sembra suggerire che il salario minimo legale, seppur diffuso, viene adottato prevalentemente come soluzione sussidiaria rispetto all’opzione contrattuale. V’è allora da chiedersi quale sia la situazione dell’Italia sotto questo profilo.
Nel nostro Paese esiste una garanzia costituzionale della giusta retribuzione, la quale, per un verso, ingloba il salario minimo, dovendo qualificarsi come “sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”; per l’altro, lo modula, dovendo la retribuzione essere anche “proporzionata alla quantità e alla qualità del lavoro svolto”.
Di fatto, nell’assenza di una legge sul salario minimo, la norma costituzionale è applicata per via giurisprudenziale, poiché i giudici fanno riferimento alla cosiddetta “parte economica” dei contratti collettivi di categoria, nel cui ambito è sempre identificata, con denominazioni o formulazioni varie, quella che è da considerarsi come corrispondente, nella volontà delle parti sociali, all’equa retribuzione costituzionale (“paga base”, “minimo tabellare”, ecc…).
Esistono centinaia di ccnl, stipulati sia da sindacati di più larga e riconosciuta rappresentatività, sia da sindacati di minore o dubbia rappresentatività, che coprono virtualmente tutti i settori dell’economia; e poiché i minimi salariali stabiliti dai contratti collettivi vengono riconosciuti dai giudici indipendentemente dall’affiliazione di lavoratori e datori di lavoro alle organizzazioni che stipulano il ccnl, il problema che si pone non è, a ben vedere, quello della legale spettanza a ogni lavoratore di una retribuzione contrattuale. I problemi che si pongono sono altri, e solo alcuni di essi hanno natura normativa.
Il primo è un problema di effettiva corresponsione di tale retribuzione da parte dei datori di lavoro: ma a questo problema dovrebbe darsi una risposta sanzionatoria, e non normativa.
Il secondo è quello dei lavoratori occupati in lavori precari, discontinui, o semplicemente a orario ridotto: ove non ci si illuda di combatterlo limitando drasticamente per legge la cosiddetta “flessibilità in entrata” (vedasi, da ultimo, il “decreto dignità”), questo problema richiede un mix di politiche del lavoro, di politiche economiche, di incentivazione dell’occupazione stabile attraverso una riduzione del “cuneo fiscale e contributivo”.
Un problema di natura normativa, invece, è quello della selezione del contratto collettivo di “categoria” donde attingere la retribuzione equa: e qui il discorso sul salario minimo si mescola con quello sull’efficacia dei contratti collettivi di lavoro e sulla riforma della rappresentanza sindacale, non essendo chiaro, per esempio, se i sindacati, quando chiedono di «dare valore legale ai Ccnl stipulati dalle organizzazioni comparativamente maggiormente rappresentative» (Cgil, Cisl, Uil, Memoria per l’audizione su salario minimo orario presso la Commissione Lavoro del Senato, Audizione del 12 marzo 2019), si riferiscano all’identificazione del contratto collettivo idoneo a fissare la sola retribuzione garantita dall’art. 36 della Costituzione, ovvero evochino una legge che, in applicazione (ma anche a modifica) dell’art. 39 della Costituzione, attribuisca efficacia erga omnes ai contratti collettivi stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi.
È chiaro che, se così fosse, il tema del salario minimo legale perderebbe gran parte della sua rilevanza, conservando una valenza meramente correttiva nei confronti di contratti collettivi che dovessero prevedere minimi tabellari inferiori alla soglia legale, e, a ogni modo, venendo fagocitato in una dimensione di riforma delle relazioni industriali che largamente lo trascende.
Una soluzione intelligente ed equilibrata è quella prospettata dal disegno di legge d’iniziativa dei senatori Nannicini e altri, AS n. 1132/2019, che si propone di legificare la prassi giurisprudenziale che rinviene nei minimi tabellari del ccnl l’equa retribuzione di cui all’art. 36.
Il problema dell’individuazione delle voci retributive che compongono l’equa retribuzione viene risolto facendo riferimento al “trattamento minimo tabellare”: chiarendosi, così, che il solo “trattamento minimo tabellare stabilito dal contratto collettivo nazionale di lavoro”, e non l’intera parte economica (né tanto meno normativa) di tale contratto, “si applica a tutti i lavoratori del settore, ovunque impiegati nel territorio nazionale”: dunque, nessuna efficacia erga omnes del contratto collettivo.
Quanto ai soggetti collettivi, il ddl adotta il criterio della “rappresentatività comparativamente maggiore” (“sul piano nazionale”), invalso da due decenni nella legislazione giuslavoristica e già fatto proprio dall‘Accordo interconfederale sulla rappresentanza del 2014: in sostanza, laddove in un determinato settore insistano più contratti collettivi, ai fini della individuazione del “trattamento minimo tabellare” sarebbe da prendere in considerazione quello stipulato dalle associazioni sindacali, o loro coalizioni, che in quel settore soddisfino il criterio “maggioritario” – basato sulla media tra deleghe sindacali e voti espressi nelle elezioni degli organismi di rappresentanza aziendale – recepito dal predetto Accordo interconfederale.