Sull’introduzione del salario minimo legale in Italia si è formata una cordata di forze politiche dell’opposizione parlamentare, con l’esclusione della componente di Italia Viva, che propone di introdurre un salario minimo legale di 9 euro per ogni ora di lavoro che diventa vincolante anche per la contrattazione collettiva a cui viene affidato il compito di stabilire valori salariali superiori a tale cifra.



Entro il mese di novembre del 2024 le rappresentanze sindacali dei datori di lavoro e dei lavoratori dovrebbero adeguare i contratti collettivi al valore base dell’importo orario. In parallelo dovrebbe essere nominata una commissione indipendente per verificare l’attuazione del salario minimo legale finanziato da un fondo pubblico per rendere sostenibile l’adeguamento dei costi per i comparti economici più in difficoltà.



Per i promotori, la proposta risponde a tre esigenze: attuare pienamente quanto disposto dalla Direttiva europea n. 2941, approvata nel 2022, sul salario minimo dignitoso; offrire una risposta tangibile a circa 3,5 milioni di lavoratori che hanno salari inferiori rispetto al 60% di quello mediano nazionale, che viene preso come riferimento dalla citata direttiva; contrastare l’impatto dei cosiddetti contratti pirata sottoscritti dalle rappresentanze datoriali e sindacali prive di rappresentatività per l’obiettivo di ridurre i costi del lavoro generando una concorrenza sleale tra imprese.



In assenza di un testo che illustra in modo dettagliato le caratteristiche della proposta, a partire dalla modalità di calcolo del valore dei 9 euro orari (ad esempio: se comprensivi o no dei costi del salario differito della tredicesima e del Trattamento di fine rapporto), è problematico comprendere l’impatto reale sulla struttura delle retribuzioni. Detto ciò, la relazione tra l’introduzione del salario minimo legale e gli obiettivi dichiarati dai promotori risulta alquanto improbabile.

Procediamo con ordine. La Direttiva europea non impone alcun obbligo di introdurre il salario minimo legale. Non solo lascia aperta la possibilità a ogni Stato di attuare l’obiettivo di ridurre il numero dei lavoratori privi di tutele minime tramite un intervento legislativo o con il rafforzamento della contrattazione collettiva, ma evidenzia come i livelli di copertura delle tutele risultino più elevati negli Stati aderenti dove i contratti collettivi assicurano una copertura superiore all’80% sul complesso dei lavoratori dipendenti. Infatti, tale obiettivo risulta ampiamente superato nei 6 Paesi che non hanno introdotto un salario minimo legale (Austria, Finlandia, Danimarca, Svezia, Italia, Cipro) e risulta distante nella maggior parte degli altri 21 Paesi che prevedono il salario minimo legale.

Per l’Italia il grado di copertura è di gran lunga superiore al 90% e quello dei lavoratori privi di adeguate tutele (3,5%) risulta il più basso tra i Paesi aderenti all’Ue. Indicatori che esentano l’Italia dall’ attuazione della Direttiva, fatti salvi gli obblighi di monitoraggio e di contrasto dei comportamenti illegali. Giova evidenziare che nelle comparazioni effettuate dall’Eurostat sull’andamento dei salari medi nazionali, le differenze negative per quelli italiani, più volte sottolineate sui mass media, derivano essenzialmente dalla dinamica contenuta delle retribuzioni medio alte, mentre risultano più allineate quelle delle basse qualifiche e nei comparti dei servizi.

Non è nemmeno vero che nel nostro Paese non esistano strumenti legislativi per la tutela dei salari minimi. Essi derivano dalla attuazione dell’art. 36 della Costituzione sul diritto ad avere un giusto salario rapportato alla professione e ai bisogni delle famiglie. Oggetto di orientamenti consolidati della Corte Costituzionale che identifica il giusto salario con il complesso dei trattamenti previsti dai contratti collettivi sottoscritti dalle Rappresentanze sindacali maggiormente rappresentative, e attuati in tutti i pronunciamenti della Magistratura rivolti al dirimere i contenziosi. I risultati italiani sono il frutto del combinato disposto degli orientamenti costituzionali e dell’iniziativa delle parti sociali.

Tali risultati non sono stati pregiudicati dell’avvento del cosiddetti contratti pirata, voce che ricomprende i due terzi dei contratti collettivi depositati al Cnel (950), che hanno avuto una rilevante espansione numerica nel corso degli ultimi 15 anni, ma inversamente proporzionale all’effettiva incidenza sulle relazioni sindacali (circa 500 risultano inapplicati).

L’origine dei 3,5 milioni di lavoratori poveri, identificati con la quota dei lavoratori dipendenti che hanno salari annuali inferiori al 60% di quello mediano, deriva essenzialmente dalla ridotta quantità delle ore lavorate ufficialmente dichiarate, assai meno, circa 700 mila, per il valore contenuto delle retribuzioni orarie contrattuali. Giova evidenziare che buona parte di queste persone, in particolare lavoratori domestici, braccianti, delle pulizie, delle costruzioni e della logistica, opera in settori caratterizzati dal lavoro sommerso illegale. Che rimarrebbe tale non solo per la mancata applicazione dei contratti collettivi, ma anche per una mancata applicazione del salario minimo legale.

Quale potrebbe essere l’impatto della proposta di salario minimo legale in questo contesto? Secondo le stime dell’ economista Andrea Guarnero dell’Ocse, il salario minimo orario di 9 euro risulterebbe superiore a quello mediano nazionale (7,5 euro) con uno scostamento tra i più rilevanti nei Paesi sviluppati aderenti all’Organizzazione. Nella più ragionevole delle ipotesi, quella che tiene conto nei 9 euro dell’impatto sul salario differito, sulla base delle stime comporterebbe un incremento dei costi superiore ai 4 miliardi di euro l’anno (stime Inapp rilasciate alla Commissione parlamentare). Ma l’innalzamento del valore del parametro di base delle retribuzioni produce come conseguenza un appiattimento delle retribuzioni rispetto alle qualifiche più elevate che non sarà priva di conseguenze per i rinnovi contrattuali.

L’utilizzo della leva del salario minimo per la finalità di imprimere una spinta generale per la crescita dei salari, ben oltre la mera tutela di quelli bassi, è un obiettivo esplicito di una parte dei promotori. Una palese sconfessione del ruolo delle parti sociali che può generare il rischio di un consistente aumento delle prestazioni sommerse, ovvero un ulteriore fabbisogno aggiuntivo di aiuti pubblici per rendere sostenibile tali interventi.

Per un insieme di motivazioni facilmente comprensibili, l’introduzione del salario minimo legale è destinata a scardinare l’orientamento giuridico che ha consentito di rafforzare il ruolo della contrattazione collettiva e di autorità salariale delle parti sociali. Del tutto coerente con lo spostamento dell’asse della tutela dei lavoratori verso la capacità dello Stato di drenare le risorse dai ceti produttivi per alimentare i sostegni al reddito di varia natura e a una politicizzazione dei comportamenti delle parti sociali.

Non una novità in assoluto, ma un’ulteriore spinta nella direzione di un utilizzo sbagliato delle risorse che genera risultati opposti rispetto a quelli desiderati.

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