Mentre i sindacati sono ancora intestarditi sulle pensioni e non si accontentano delle linee guida pubblicate dal ministro del Lavoro (in verità è una pratica un po’ insolita) il Governo li ha convocati per giovedì. Fonti di palazzo Chigi raccontano che Mario Draghi teme una campagna di rivendicazioni salariali come conseguenza dell’inflazione. Ciò comporterebbe l’effetto di consolidamento e rilancio dei tassi di inflazione che l’economia del Paese non può permettersi.
Il Governo non arriverebbe a mani vuote per convincere i sindacati ad accettare una politica dei redditi. L’impresa è meritoria, ma molto complessa perché l’indicatore IPCA misura gli incrementi del costo della vita al netto dei prezzi dei prodotti energetici ovvero proprio dove si pone il problema. Draghi pensa di poter guadagnare tempo con i sussidi alla famiglie e alle imprese, mentre il Governo sarebbe pronto a concedere ai sindacati un aumento della fiscalizzazione degli oneri contributivi per i redditi più bassi, in aggiunta a quella già prevista. Corre voce poi che Draghi intenda giocarsi una carta importante: l’istituzione del salario minimo legale.
È allo studio al Cnel un disegno di legge che giustificherebbe la misura in attuazione dell’articolo 36 Cost. che stabilisce appunto il diritto del lavoratore a una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa. I sindacati non hanno messo da parte i dubbi che nutrono in materia: il loro obiettivo rimane quello di dare applicazione erga omnes ai contratti da loro sottoscritti per contrastare il fenomeno, in espansione, dei c.d. contratti pirata. Ma la strada da percorrere per raggiungere questo obiettivo è quella di una legge sulla rappresentanza: un’operazione che presenta delle complessità sottovalutate.
Ad avviso di chi scrive una legge sulla rappresentanza eserciterebbe una violenza al sistema delle relazioni industriali per come si è costituito dal dopoguerra a oggi al di fuori dell’articolo 39 Cost. L’attuale sistema si fonda sui principi del reciproco riconoscimento, dell’autonomia e della libertà contrattuale. C’è una differenza profonda, ad esempio, tra il Testo unico sulla rappresentanza (un atto di autonomia contrattuale interna al sistema) e il varo di una legge. L’esperienza compiuta col sistema dei partiti dovrebbe indurci a salvaguardare un sistema di relazioni industriali che ha funzionato e funziona, assicurandone la gestione alle parti che di questo sistema sono state protagoniste.
Ci sarebbe una possibile soluzione – sia pure temporanea e con caratteri di eccezionalità – per estendere erga omnes non solo dei salari minimi ma anche delle condizioni normative altrettanto minime. Alla fine degli anni ’50 si manifestò l’esaurirsi di un vecchio modello di contrattazione e l’apertura di uno nuovo. L’ossessione dell’efficacia erga omnes dei contratti – condivisa del resto dalle organizzazioni sindacali – aveva spinto il legislatore – che non era riuscito a dare attuazione a quanto previsto dall’articolo 39 della Legge fondamentale – a individuare uno strumento giuridico alternativo per realizzare il medesimo obiettivo. Con la legge n. 741 del 1959 (la c.d. legge Vigorelli) il Parlamento aveva attribuito al Governo la delega per emanare una serie di decreti contenenti la garanzia di un “minimo di trattamento economico e normativo” per ogni categoria, conformando i singoli decreti al contenuto dei contratti collettivi esistenti al momento dell’entrata in vigore della delega. Ne risultò un ibrido con la forma di una legge sui minimi e la sostanza di un’estensione erga omnes dei contratti collettivi, attraverso il loro “recepimento” legislativo: tutto ciò, al di fuori delle modalità e delle procedure previste nella Costituzione.
Proprio per questi motivi l’intervento fu ritenuto ammissibile, dalla Consulta, in ragione della sua temporaneità, transitorietà e straordinarietà. La Corte Costituzionale abrogò, invece, la successiva disposizione di proroga del termine originariamente previsto, ritenendola in contrasto con la natura necessariamente transitoria e provvisoria di quel sistema di estensione dei contratti collettivi, diverso da quanto previsto dall’articolo 39. In sostanza, però, la lezione apparve molto chiara: gran parte dell’attività contrattuale svolta fino a quel momento era talmente rigida da poter essere trasferita in blocco in un corpo legislativo. Fu una sorta di canto del cigno di un assetto contrattuale ancora fortemente permeato dagli accordi corporativi, tanto che negli anni immediatamente successivi la qualità della contrattazione collettiva subì una forte accelerazione.
La ratio della legge era chiaro fin dal primo articolo: “Il Governo è delegato ad emanare norme giuridiche, aventi forza di legge, al fine di assicurare minimi inderogabili di trattamento economico e normativo nei confronti di tutti gli appartenenti ad una medesima categoria. Nella emanazione delle norme il Governo dovrà uniformarsi a tutte le clausole dei singoli accordi economici e contratti collettivi, anche intercategoriali, stipulati dalle associazioni sindacali anteriormente alla data di entrata in vigore della presente legge”.
Ovviamente l’operazione dovrebbe essere aggiornata alle esigenze odierne, la principale delle quali potrebbe riguardare la selezione dei contratti esistenti conferendo al Governo un potere istruttorio che lo porterebbe a escludere dell’ambito legislativo (una tantum, sia chiaro) i contratti pirata. Mentre i contratti recepiti tramite i decreti delegati servirebbero a stabilire una base minima anche da un punto di vista normativo.
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