Nelle ultime settimane ha ripreso forza in Italia il dibattito sul tema del salario minimo. All’origine di questo ci sono due fattori: il primo è il picco inflattivo in Italia e non solo, degli ultimi due anni, che ha fortemente eroso il potere d’acquisto dei salari medi (secondo i dati Istat, l’inflazione biennale rispetto a giugno 2021 è al 15,8%); il secondo è l’approvazione, nell’ottobre 2022, della Direttiva europea sull’individuazione di salari minimi equi e dignitosi. Questa direttiva prevede che qualora uno Stato sia al di sotto della quota dell’80% dei lavoratori coperti da contrattazione collettiva, questo dovrà definire un piano di azione per promuovere la contrattazione o per arrivare alla definizione di un salario minimo.



Secondo i dati elaborati dall’ufficio studi della Fondazione consulenti del lavoro, in Italia il 96,5% dei lavoratori dipendenti risulta coperto da un contratto collettivo. Prendendo spunto dai 61 contratti collettivi più rappresentativi, ed escludendo per la sua atipicità il lavoro domestico, la Fondazione ha individuato il minimo retributivo previsto per il livello di inquadramento più basso (includendo il rateo orario di 13ma, 14ma e TFR). Risulta interessante notare come già l’81,8% dei lavoratori è coperto da minimi contrattuali superiori alla soglia dei 9 euro all’ora, individuata come livello retributivo minimo dalla maggior parte delle proposte di legge, mentre il 17,3% dei lavoratori italiani ha contratti collettivi il cui minimo più basso si colloca tra gli 8 e i 9 euro all’ora. Solo lo 0,9% dei lavoratori ha contratti collettivi con minimi orari inferiori agli 8 euro all’ora. È necessario sottolineare che per questi oltre due milioni di lavoratori con minimi sotto i 9 euro orari, la retribuzione reale è spesso superiore: va infatti considerato che molti dipendenti non sono al livello di inquadramento più basso, ma hanno livelli più alti e che molti lavoratori hanno maturato scatti di anzianità o hanno diritto a ulteriori indennità e premi di produzione.



Dallo studio fatto dai consulenti del lavoro emerge, quindi, come l’impatto di un’eventuale normativa che ponesse un salario minimo a 9 euro orari (compresi anche della retribuzione differita) sarebbe sostanzialmente molto limitato e non andrebbe a risolvere alla radice le cause né del “lavoro povero” (ovvero di quelle persone che pur lavorando non riescono a vivere un’esistenza “libera e dignitosa”), né della riduzione del potere d’acquisto della classe media.

Per affrontare le due tematiche sopra descritte, senza la pretesa di avere la panacea a tutti i problemi del lavoro italiano, occorre percorrere tre strade: legalità, territorialità e, soprattutto, produttività.



La prima è legata alla necessità che vengano rispettate le previsioni della normativa di legge e collettiva: molto spesso il lavoro povero è legato a forme di mancato rispetto dei minimi salariali, delle regole sull’orario di lavoro, delle previsioni in materia di lavoro straordinario e mensilità aggiuntive, sistemi attivati sia dalle piccole aziende, che ricattano i lavoratori con il mantra “se vuoi lavorare è così che si fa”, che da parte di aziende più grandi e note, che in maniera più o meno consapevole utilizzano sistemi di cooperative o di società di servizi e che negli ultimi tempi sono state attenzionate dalle procure. Su questo, più le norme sono semplici e chiare e più è facile per le autorità ispettive intervenire. Il pubblico poi, fungendo in molti casi non solo da ente di controllo ma anche da appaltatore, deve fuggire dalle gare di appalto al massimo ribasso e attenzionare i propri fornitori, chiedendo il rispetto della contrattazione collettiva del settore, ma anche pagando i servizi in maniera congrua e nel rispetto delle tempistiche previste.

La seconda strada è legata alla considerazione che il costo della vita non è uguale su tutto il suolo nazionale. Con lo stesso stipendio un lavoratore basato a Milano ha uno stile di vita molto inferiore di uno basato a Trapani. Purtroppo, la contrattazione collettiva nazionale (anche quella del pubblico impiego) tende a livellare i salari: è necessario un cambio di rotta con l’introduzione di elementi retributivi territoriali parametrati al reale costo della vita.

Il terzo punto è quello forse più significativo: solo se si riesce a incrementare la produttività è possibile alzare i salari. L’incremento della produttività avviene non solo grazie alla genialità dell’imprenditore e dei suoi manager, ma è anche necessario un sistema che deve tendere a incentivare chi fa impresa, chi innova, chi lavora, senza rallentarlo con inutili orpelli burocratici o, peggio ancora, soffocarlo con tasse e adempimenti. La produttività dipende anche dai lavoratori, da come questi si pongono rispetto al lavoro, dall’attenzione e dalla cura che prestano alle proprie mansioni e dallo spunto personale, magari piccolo, che ognuno è in grado di dare.

È una cultura del lavoro che occorre recuperare, una cultura del far bene, e della successiva incentivazione a far ancora meglio: molto di questa cultura dipendente da come l’imprenditore e il manager impostano l’azienda, ma molto dipende anche dai lavoratori, e su questo le organizzazioni sindacali hanno ancora molta strada da fare per smettere di difendere situazioni indifendibili e non vedere più l’azienda come nemica ma come collaboratrice. La detassazione e decontribuzione dei premi di produttività, il welfare aziendale, e in generale, la riduzione del cuneo fiscale su incrementi retributivi sono indubbiamente strumenti utili a favorire la produttività e la cooperazione tra lavoratori ed aziende, e per questo devono essere sostenuti e favoriti dallo Stato.

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