Dopo tanto clamore, tante invocazioni a una maggiore giustizia sociale – a cui hanno partecipato anche grandi quotidiani con la medesima foga di un foglio della IV Internazionale o di un proclama delle Brigate rosse -, il progetto di legge sul salario minimo presentato dalle opposizioni, con l’eccezione di Italia Viva (Renzi si fa sempre riconoscere!) arriva oggi in commissione Lavoro della Camera per un voto che potrebbe chiudere una fase della discussione o aprirne un’altra.



Purtroppo, però, un dibattito che sembrava dedicato ai massimi sistemi e al futuro del Paese, si è ridotto a un gioco di “rubabandiera” tra maggioranza e minoranze. La sfida è semplice da descrivere, anche se forse nell’era dei videogiochi non si usa più. Un terzo, si mette in mezzo a due contendenti ostentando un fazzoletto; quello più veloce lo afferra e scappa, se l’altro non lo raggiunge, ha vinto. Non è fuori luogo fare l’esempio delle bandiere; perché – come ha scritto Francesco Nespoli su Adapt – «se è vero che la proposta di legge firmata dalle opposizioni non è stata comunicata mirando ad intavolare un confronto, bensì come “misura bandiera”, la scelta speculare del Governo di sopprimere l’intera proposta per emendamento presta ora il fianco a una narrazione delle più stereotipate (come quelle a cui stiamo assistendo, ndr) e rischia di innescare una spirale al rialzo per le tensioni in campo».



Ricostruendo le vicende delle ultime settimane (la proposta è dei primi giorni di luglio) si riscontra un’alternarsi di vicende che hanno aggiustato la tattica (guai parlare di strategia!) delle parti in causa. Ci siamo interrogati sul perché le opposizioni hanno deciso di forzare i tempi chiedendo la calendarizzazione e l’esame in Commissione della loro proposta. Di per sé è sembrato un errore, perché non si poteva pretendere che la maggioranza – contraria all’introduzione del salario minimo – facesse passare il progetto delle minoranze garantendo loro un successo politico. Ecco allora il prevedibile emendamento soppressivo che doveva essere votato martedì scorso. Era apparso allora evidente che l’obiettivo dei presentatori non era quello di introdurre nell’ordinamento il salario minimo di 9 euro (lordi?), bensì quello di farsi bocciare il progetto per denunciare la sordità della destra nei confronti del lavoro povero.



Su questo punto c’è un altro passaggio nell’articolo di Francesco Nespoli che val la pena di citare: «La comunicazione politica dei proponenti ha teso a nascondere o trascurare – scrive l’autore – gli effetti paradossali della misura. Effetti cioè che potrebbero – prosegue – andare a colpire non (solo, ndr) l’economia e la società nel suo complesso o le “controparti”, ma proprio coloro che dovrebbero essere i diretti beneficiari della garanzie legale (ossia i lavoratori poveri), nonché i salari medi e le organizzazioni sindacali storicamente dedicate alla tutela dei lavoratori (e tendenzialmente considerate un valore nella prospettiva culturale dei firmatari della proposta)». In breve, le opposizioni erano pronte a rivendicare una soluzione dannosa anche per i lavoratori, pur di mettere in difficoltà la maggioranza, sul piano della comunicazione.

Nessuno si aspettava che l’intesa tra i possibili protagonisti del “campo largo”, usciti con le ossa rotte dalle elezioni in Molise, potesse suscitare un’ampia campagna populista a sostegno meramente per ragioni di carattere politico. La maggioranza si è trovata in difficoltà davanti alla canea che si è scatenata e ha fatto una mossa per sfuggire alla morsa della propaganda: rinviamo a settembre. Per reazione le minoranze hanno chiesto il ritiro dell’emendamento soppressivo.

E qui subentra il gioco del “rubabandiera”. Se il Governo è furbo, si guarda bene dal suggerire ai gruppi, in Commissione, di ritirare l’emendamento. Gli argomenti ci sono: se si congela la situazione lo si fa per come è attualmente. A questo punto le minoranze possono chiedere il voto e andare allo sbaraglio oppure accettare le condizioni per cui la maggioranza è disponibile al rinvio. Ma il progetto di legge del “nostro scontento” andrebbe in ferie con una pistola alla tempia.

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