Ci sono due modi per mettere un po’ più di soldi nelle tasche, vieppiù vuote, dei dipendenti pubblici e privati. Il primo è quello di aumentare i salari. Il secondo quello di tagliare le tasse. Per la verità ce ne sarebbe pure un terzo, ma è il combinato disposto dei primi due e ci permettiamo di avvisarvi: in una partita che sta scivolando sul politico il primo criterio che le controparti seguono è quello di non prendere in considerazione il buon senso.



Dunque, veniamo al punto. Cos’è la storia del salario minimo? Semplice: si stabilisce per legge la soglia minima sotto la quale un dipendente non può essere retribuito. Poniamo il caso: la soglia sono 10 euro (magari!) e nessun contratto nazionale può, per legge, prevedere una retribuzione inferiore a quel livello. E quindi? Quindi, niente. La soluzione è tutta qui. Senza troppi giri di parole, senza contrattazioni (lunghe, noiose, a volte inconcludenti), senza menate di nessun genere, con maschio piglio, si alzano per legge i contratti. Cioè: si alzano i contratti di tutti quei lavoratori dipendenti (o paradipendenti, o pseudodipendenti, ma ci torneremo) che oggi stanno sotto quella soglia. E i pensionati? Per i milioni di italiani che ricevono una pensione mensile dall’Inps, anche se stanno ampiamente sotto quel livello loro restano come sono. E quelli che oggi guadagnano di più? No, loro sono un’altra categoria e per loro i conti sono altri. Loro dovranno ovviamente attendere che i Contratti nazionali, quei documenti che la legge nei fatti scavalcherebbe, provvedano a incrementare i salari.



Su questo tema, dicevamo, si sta scatenando una battaglia tutta politica e che poco ha a che vedere con il desiderio di far uscire i lavoratori italiani da quei regimi retributivi che, diciamo, a oggi sono facilmente equiparabili, mutatis mutandis, ai salari dell’Estremo Oriente.

Premessa. Se volete conoscere i retroscena e abbeverarvi alle cronache parlamentari facendo il punto su quel che avviene nelle Istituzioni, sulle mozioni della minoranza, le mozioni della maggioranza che aboliscono quelle della minoranza, sulle trattative talmente sotterranee che nessuno sa dove si facciano e altre amenità consimili, andate pure a cercare altrove. Così come non parleremo delle imprese nostrane (non tutte, forse nemmeno tante, ma certamente ancora troppe) che concorrono sul mercato internazionale puntando sul costo del lavoro, o sull’illegalità contributiva, o sui subappalti. O dei sindacati (mah: sono parole grosse per certe congreghe di merende), che scambiano la vita della gente con quattro lire (ops, euro) per sé che al confronto Esaù fu un genio. No, su una questione così seria abbiamo poca voglia di ridere e ancor meno di vederla buttata in caciara da programmi televisivi rissaioli.



Preferiamo venire alla questione centrale: si tratta di far uscire dalla miseria quei lavoratori che oggi sono tutelati (absit iniuria verbis. Consiglio non richiesto: se qualcuno ha problemi col nostro latinorum c’è sempre Google) da Contratti nazionali di cui il primo termine non è un sostantivo ma un participio passato. Sono cioè accordi talmente contratti, cioè ristretti, nei diritti e in quel salario che è poi l’evangelica mercede ricordiamo sempre ai datori di lavoro, che non è possibile equipararli a un’intesa tra controparti senzienti e normodotate. Chi li firma o chiude gli occhi o, siamo buoni, almeno li socchiude. Partiamo da un fatto: nel 2021 in Italia i Ccnl, in gergo si chiamano così, erano oltre 992. Dieci anni prima, nel 2012, erano 551. Praticamente in un decennio sono raddoppiati. Di questi, meno di 30 portano le firme dalle tre organizzazioni più rappresentative (Cgil, Cisl e Uil). Cioè tre realtà che insieme, pur tagliando le cifre ufficiali, pur depurando bilanci e dichiarazioni di vario genere, rappresentano quasi una decina di milioni di italiani, hanno sottoscritto lo 0,3% circa delle intese nazionali. Ma allora quei sindacati (vd. sopra) che hanno firmato?

Beh diciamo che se va bene parliamo di Associazioni che raggruppano qualche migliaio (decine in alcuni casi, centinaia in poche altre occasioni) di iscritti. Insomma: c’è chi rappresenta se stesso e pochi amici e firma contratti a raffica e chi rappresenta una certa moltitudine e ne firma assai meno. E cosa ha a che fare questo con il salario minimo? Moltissimo. Perché un contratto è sempre un accordo tra due parti, e se al momento della mia assunzione io sottoscrivo certe condizioni e clausole, io mi accordo per avere alcuni diritti e non altri. Ovviamente nessuno di questi contratti “al ribasso” scende fino al livello della schiavitù: il primo principio del buon italiano è di essere furbo. No. I diritti che si tagliano sono altri: il salario, ovviamente ma fino a un certo livello; poi ferie, buoni pasto, coperture giornaliere in caso di malattia, tutele familiari, permessi retribuiti, condizioni di lavoro, orario, sicurezza, flessibilità, formazione e via elencando. Cioè si vanno a colpire tutti gli istituti che consentono indirettamente di tagliare il costo del lavoro.

Torniamo adesso al nostro tema: pensate davvero, lo dico a coloro che in coscienza vedono nelle speculari iniziative governativa e dell’opposizione un’opportunità per far uscire tanti lavoratori dipendenti da questa condizione, che far salire per legge la retribuzione oraria da sei a nove euro, di questo stiamo parlando, darà ai lavoratori dipendenti quanto quei pezzi di carta gli hanno tolto?

Certo, non siamo massimalisti, sarà un passo avanti. Ma siamo sinceri, questo abolirà gli altri meccanismi che, nei fatti, decurtano i salari della gente? Se in dieci anni (dieci, mica cinquanta), i Ccnl sono passati da 551 a 992 una ragione ci sarà: e il costo orario tabellare è solo una di queste.

E poi: se per legge si è fatto un passo avanti per fare quello successivo si dovrà attendere un’altra legge. E qui arriva un altro piccolo problema: quando saranno adeguati in futuro questi livelli minimi? Se oggi, dopo decenni di inutile parlare, stiamo per affrontare la questione, quando sarà la prossima volta? Temiamo che il detto “ogni morte di Papa” risulti fortemente ottimistico (con tanto di auguri al grande Francesco che oggi regge la Cattedra di Pietro sorretto dalla grazia dello Spirito). I contratti nazionali prevedono sempre una scadenza: lo fanno perfino quelli, diciamo, “bidone”. Ma una legge no! Il rischio insomma è che questa norma finisca per sanare, in parte, una situazione pessima senza risolverne né le cause originarie, né le contraddizioni intrinseche.

A quel punto inoltre il benchmark, come si dice in economia e finanza, della retribuzione oraria tabellare sarebbe stabilito dalla legge. E lo sarebbe anche per quei salari che oggi superano, magari non di molto, il limite legale. Provate a dividere 1.400 euro per 160 ore (cioè 40 ore settimanali). Siamo tra i nove e dieci euro l’ora. Siete davvero convinti che quelle imprese che oggi applicano contratti con salari di poco superiori, si precipiteranno per rinnovare i loro accordi applicando aumenti dignitosi? Chi glielo farebbe fare? In fondo finché si fosse sopra i 9 euro si sarebbe nella legge.

Serve davvero dunque una norma legislativa per aumentare i salari? Dal nostro punto di vista la legge non sarebbe altro che un pannicello caldo, poco più valida di quel Reddito di cittadinanza che doveva abolire la povertà e che in realtà esiguamente ha prodotto (per difetti intrinsechi della disposizione, d’accordo, ma anche per lo strumento in sé).

Oggi i salari sono il combinato (o lo scombinato, fate voi) disposto di troppe tasse sui salari dei dipendenti e a carico delle imprese. D’altronde siamo onesti: lo Stato necessita di denaro e dove volete che vada a prenderlo se non dove esso è certo? Fondereste un bilancio pubblico sulle dichiarazioni dei redditi di molti (non tutti, forse tanti, certo troppi, ci ripetiamo ma passatecela) lavoratori autonomi o sulle entrate dalle concessioni balneari (che, spieghiamo per i non interessati che oggi ci leggono da sotto gli ombrelloni, ammontano a 2.500 euro all’anno)? Ma se il punto è quello di aumentare i soldi nelle tasche degli italiani e si vuol proprio fare una legge così da convincere gli elettori a rinnovarci la fiducia o a fargli cambiare cavallo, perché non farne una sulla rappresentatività? In fondo è solo dal 1970 che aspettiamo un intervento in questo senso.

O perché non prevedere un taglio del costo del lavoro? E i fondi direte giustamente voi? Già: chi paga? Governo e opposizione se lo saranno certo chiesto (mica siamo intelligenti solo noi), ma temiamo che entrambe, direttamente o meno, pensino che alla fin fine i maggiori oneri si potranno scaricare ancora sui consumatori. Perché sicuramente le imprese che dovranno adeguare i loro contratti provvederanno (come avviene oggi, teste la Bce), almeno per una parte a rivedere il costo delle loro merci o dei loro servizi. Cioè ad aumentare i prezzi. D’altronde non è un caso che nella proposta presentata dai Cinque Stelle si preveda l’istituzione di un Fondo Nazionale che dovrebbe andare a favore delle aziende che si vedono aumentare il costo del lavoro. Ricapitoliamo l’acutissima pensata dei pentastellati: lo Stato, cioè noi, dovrebbe trasferire denaro alle aziende perché queste incrementino i salari dei lavoratori dipendenti così che, poniamo, la pizza serale recapitataci a casa non balzi d’un sol colpo dai 12 ai 15 euro e quindi le aziende stesse non chiudano e non licenzino. Semplice vero? A voi sembra un uovo di Colombo? Ben per voi. A noi sembra invece un gran casino generatore di futuri casini e fecondo procreatore di cause (legali e non). Ma magari siamo noi che vediamo male e non capiamo la genialità di queste soluzioni.

Siccome però siamo testoni, insistiamo nella nostra soluzione alternativa: se si dovesse proprio fare una legge, perché non farla sulla rappresentatività dei firmatari dei contratti di lavoro e decidere dunque che anche se dici di essere un sindacato nazionale ma rappresenti poco più dei tuoi familiari (non quelli stretti, perché loro ti conoscono e ti stanno alla larga) e una parte dei tuoi coinquilini, non hai diritto di firmare contratti che prevedano condizioni generali (cioè diritti) inferiori a quelli, poniamo, previsti da Ccnl firmati dai sindacati più rappresentativi? O ancora: perché non fare una legge che allarghi erga omnes (anche qui: cercatevelo su Google) la validità dei contratti firmati dai sindacati più rappresentativi?

Certo: il Governo in quel caso non potrebbe andare in tivù a spiegare che ha dato agli italiani un aumento contrattuale e l’opposizione non potrebbe gridare al furto. Ma forse, dico forse, faremmo un passo avanti in direzione di divenire un semplice, normale Paese. Non speriamo mica nel Paradiso qui e ora (non siamo eretici): ci basterebbe un Paese normale. Ciò eviterebbe che i nuovi contratti abbiano riflessi sul costo della vita? No: questo è un fatto ineliminabile. Ma sarebbe forse meglio gestibile: quanto troviamo nella busta paga mensile, infatti, è il frutto di una serie di istituti, di cui le retribuzioni tabellari sono una parte ma non tutto. Avremmo il vantaggio peraltro di spazzare via centinaia di contrattini che ammorbano il mercato del lavoro e lo rendono ingestibile.

Un salario mensile degno e dignitoso si raggiunge sia incrementando le retribuzioni, sia dosando i costi della vita: la prima parte tocca a imprese e sindacati; la seconda al Governo. Ciascuno, Mattarella dixit, faccia il suo senza invadere i campi altrui.

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