Da quando si è cercato di forzare il sistema politico italiano in un modello bipolare non è più stato possibile avere un terreno comune di confronto. È come se le basi comuni su cui si sono costruite le norme fondamentali e la prassi di governo dei decenni della ricostruzione e dello sviluppo del Paese appartenessero a marziani. I due nuovi poli che si confrontano non hanno radici nel passato e si delegittimano reciprocamente. Nessuno dei due ha, a parere dell’altro, il diritto a governare. E ciò indipendentemente dai risultati elettorali.



A smontare questa tesi basterebbe prestare attenzione alla realtà. Nessuna delle coalizioni, anche in presenza di maggioranze parlamentari significative, è riuscita a realizzare il suo programma politico, né a rimanere unita per tutta la legislatura. A creare le crisi sempre il fuoco “amico” oltre alla tattica dell’opposizione. Quando poi si sono tentate riforme di fondo su questioni istituzionali o costituzionali si è formata una maggioranza conservativa dell’esistente che ha sempre impedito qualsiasi innovazione e messo in crisi le coalizioni che l’avevano proposte. Ciò con il risultato di avere fatto solo tagli demagogici alla composizione delle assemblee elettive senza cambiarne i poteri e creando così un sistema parlamentare inefficiente.



La delegittimazione reciproca dei due schieramenti crea una situazione di incapacità ad affrontare i problemi di fondo e a creare continui scontri di principio ma senza capacità di dialogo, fattore essenziale per creare equilibri comuni facendo passi avanti per tutta la società. La capacità di mettere a disposizione del bene comune le proprie idee senza farle diventare motivo di delegittimazione degli avversari politici è stata la forza delle grandi famiglie politiche che hanno scritto la nostra Costituzione. Oggi vi sono piccole famiglie politiche e l’incapacità di affrontare i temi di fondo con la disponibilità a capire le ragioni dell’altro per poter fare un passo avanti assieme.



È così sulle riforme istituzionali dove la riforma di uno diventa un attacco alla democrazia per l’altro. Dove la riforma della giustizia diventa per l’opposizione del momento una concessione a favore di mafie e corrotti e dove non si può parlare di riforma del fisco perché per gli uni è mettere le mani nelle tasche degli italiani e per gli altri è un favore agli evasori.

In questo clima la discussione sul salario minimo non poteva che diventare uno scontro di bandiere anch’esso. La proposta di legge avanzata dai populismi di sinistra è fatta per creare un tema da discussione in spiaggia durante la “mobilitazione” estiva, ma senza creare il consenso sociale necessario e indispensabile. La bocciatura con voto per fare decadere anche la proposta di dibattito parlamentare non ci chiarisce la posizione del Governo su cosa intende fare nel merito.

Perché in realtà i temi che formano la discussione che sta dentro la questione del salario minimo meritano tutt’altro atteggiamento e possono ancora diventare uno dei terreni dove cercare di ricostruire una capacità di dialogo fra diversi per il bene del Paese. Oltre ai due schieramenti politici vi è in questo caso un terzo soggetto, il sindacato, che potrebbe giocare, se capace di ritrovare una posizione unitaria, una posizione costruttiva.

Come appare chiaro dalla Direttiva europea, che invita a fissare un minimo salariale per legge laddove la contrattazione sindacale non assicura una copertura maggioritaria delle posizioni lavorative, i temi della rappresentanza e del salario sono collegate. Nel nostro Paese c’è una copertura della contrattazione sindacale ben sopra il livello richiesto dall’Europa frutto di una presenza sindacale ancora capace di dare rappresentanza alle esigenze dei lavoratori. Si è creata però una situazione del mercato del lavoro per cui vi sono settori dove il lavoro diventa lavoro povero, cioè con un salario che non copre il costo, per dirla alla Marx, della “riproduzione della forza lavoro”. Sono settori marginali, hanno caratteristiche particolari, esistono contratti firmati da sigle sindacali minoritarie, ma nessun settore può dichiararsi esente. Basta pensare alle differenze salariali presenti nelle strutture sanitarie fra assunti e lavoratori forniti via cooperative con appalto di servizi o gare pubbliche per fornitura di manodopera in somministrazione fatte al massimo ribasso come se non esistesse un minimo già ora.

La questione della giustizia si pone e alcuni interventi della magistratura per riconoscere l’equilibrio sul compenso sono una nuova sollecitazione a dare una soluzione legislativa. Ma come detto il tema ha due ambiti. Badare solo ad un livello economico può diventare un’ulteriore spinta alla disintermediazione e un passo indietro nella ricchezza sociale rappresentata dalla presenza di forti sindacati.

La realtà sindacale italiana è un valore sociale. È certamente tale per la capacità di rappresentare i lavoratori nel confronto con i datori di lavoro, ma è anche una presenza sociale per tutti i servizi che mette a disposizione delle persone attraverso i Caf e gli altri servizi a sostegno del welfare famigliare o del tempo libero. Per questo la discussione sul salario minimo è anche una discussione sul valore che attribuiamo ai corpi intermedi nella società. È un dibattito che coinvolge la scelta fra uno sviluppo sociale basato sulla sussidiarietà o la via della centralizzazione delle decisioni in un potere centrale unico, anticipo di un uomo solo al comando, forma che prevale fra i populismi di destra e di sinistra.

Per questo dovrebbero essere i sindacati ad avanzare un’ipotesi di lavoro unitaria che parta dalla valorizzazione del loro ruolo sociale e dalla contrattazione in atto. Non si possono fissare per legge né un valore minimo di salario valido per tutti i settori, né il riconoscimento legale delle rappresentanze. Potrebbe però una proposta di legge istituire due commissioni partecipate dai sindacati e dalle rappresentanze sociali per fissare i minimi salariali per i settori non coperti da contrattazione e per certificare la rappresentatività delle organizzazioni firmatarie dei contratti.

Visto che lo si è mantenuto in vita, il Cnel, che già svolge attività di raccolta dei dati della contrattazione, potrebbe essere la sede di un ambito dove rispondere a quanto previsto dalla Costituzione sui sindacati e dare un punto di riferimento certo all’equo salario.

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