Nei tempi recenti è tornata in auge la proposta di introdurre per legge il salario minimo per i lavoratori dipendenti, anticipando l’attuazione della proposta di direttiva europea predisposta dalla Commissione per ottenere il parere degli stati nazionali, prima dell’approvazione finale.
Un obiettivo bandiera per gli esponenti del M5S che ha riscontrato l’adesione del Pd guidato da Enrico Letta che nel giro di tre mesi è riuscito a proporre l’elargizione di un bonus di 10 mila euro per i giovani diciottenni, l’introduzione di un salario minimo d’ingresso, sempre per i giovani, e infine l’approvazione di una legge che lo preveda per tutti.
Confusione mentale a parte, la rivendicazione è stata avanzata con il proposito di farla diventare un pilastro della nuova politica economica del Governo. Sostenuta a gran cassa anche dal Presidente dell’Inps Pasquale Tridico che, non contento di aver teorizzato un aumento di 1 milione di posti di lavoro per effetto del Reddito di cittadinanza, ha ampliato i suoi orizzonti affermando che l’introduzione tramite legge di un salario minimo orario di 9 euro migliorerebbe le retribuzioni di oltre 4 milioni di lavoratori (poco meno del 30% dei dipendenti delle imprese private). Con buona pace delle rappresentanze sindacali, che rinnovano con fatica i contratti collettivi, quando basterebbe una legge per moltiplicare gli introiti dei lavoratori.
Ragionando seriamente, coloro che rivendicano un intervento legislativo sui salari, intendono cogliere tre obiettivi: allineare l’Italia al novero dei 21 Paesi che hanno introdotto per legge il salario minimo, sul totale dei 27 aderenti all’Ue; ridurre la quota dei lavoratori sottopagati perché non adeguatamente tutelati dalla contrattazione collettiva; offrire una solida risposta anche alle evoluzioni delle attività economiche e alle nuove forme di rapporto di lavoro, in particolare ai lavoratori parasubordinati.
Per comprendere l’impatto della eventuale introduzione del salario minimo legale, Giuliano Cazzola su queste pagine ha fatto una dettagliata disamina degli obiettivi della proposta di direttiva Ue (estensione delle tutele salariali per i Paesi che hanno un grado di copertura dei contratti collettivi inferiore al 70% dei lavoratori, con un salario minimo legale pari al 60% di quello mediano). Sul piano formale la direttiva Ue non impone agli Stati nazionali di ottenerli adottando una specifica legge, ma lo suggerisce di fatto per i Paesi che hanno una contrattazione collettiva poco incisiva.
La relazione preparatoria contiene una corposa analisi della situazione in essere (vedi articolo sul Sussidiario del 30 ottobre 2020) dove traspare che tra i primi 6 Paesi che registrano un grado di copertura delle tutele superiore al richiamato 70%, 6 tra i quali l’Italia, non prevedono il salario minimo legale. All’opposto, per molti dei 21 Paesi che hanno già adottato un provvedimento simile, i risultati sono stati inferiori alle aspettative dei legislatori. Per questo motivo la proposta di direttiva introduce anche una serie di criteri e di metodologie di intervento rivolti a rafforzare l’applicazione dei salari minimi.
Il risultato italiano, l’80% dei lavoratori tutelati, è il frutto del combinato disposto dell’articolo 36 della Costituzione sul diritto del lavoratore di essere retribuito con un giusto salario rapportato alla prestazione professionale svolta e ai bisogni familiari, e della progressiva estensione dei contratti collettivi nazionali di categoria all’intero complesso delle attività economiche. Contratti che hanno assunto una funzione di tutela “erga omnes” anche per le imprese e i lavoratori non iscritti alle parti firmatarie, grazie ai pronunciamenti della Corte costituzionale che li ha identificati come il punto di riferimento per l’attuazione del principio del giusto salario anche per la risoluzione delle controversie lavorative.
Nell’ordinamento giuridico italiano la tutela minima non si identifica nel salario di base, ma sul complesso dei trattamenti salariali e normativi rapportati alle qualifiche, e aggiuntivi alle previsioni di legge in materia di sicurezza sul lavoro, orario massimo legale, periodo di ferie obbligatorio, tredicesima mensilità e trattamento di fine lavoro. L’introduzione del salario minimo legale comporterebbe di conseguenza un ridimensionamento delle tutele minime e un superamento della attuazione erga omnes dei contratti collettivi.
Per aggirare questo rischio i sostenitori della legge, in particolare gli esponenti del M5S, propongono l’introduzione di un salario minimo di almeno 9 euro ora. Che applicata all’ultimo livello degli inquadramenti contrattuali comporterebbe una revisione al rialzo dei trattamenti di base anche per le qualifiche superiori. Un effetto devastante per la contrattazione collettiva, ma che non sarebbe obbligatorio per chi non ritiene di applicare i contratti in vigore.
Per attenuare questi effetti alcuni esponenti della sinistra politica propongono di computare nel calcolo anche gli importi del salario differito (tredicesima, quattordicesima, Rfr). Una condizione già ampiamente acquisita nella stragrande maggioranza dei contratti collettivi. In buona sostanza una operazione inutile.
Altrettanto difficile che una proposta di salario minimo particolarmente elevata possa facilitare l’emersione del lavoro nero.
Questo non significa affatto che l’attuale sistema di tutele non meriti di essere riconsiderato.
Un primo aspetto, ampiamente noto, è quello della misurazione della rappresentatività delle organizzazioni firmatarie. Che attualmente viene assunto in via di fatto, associato ai contratti sottoscritti dalle categorie aderenti a Cgil, Cisl e Uil, con l’aggiunta di volta in volta di altre sigle rappresentative nei singoli comparti, in assenza di una legge che dia attuazione a quanto previsto dall’articolo 39 della Costituzione (estensione erga omnes dei contratti collettivi sottoscritti dalle organizzazioni sindacali più rappresentative). Sul merito era stata trovata un’intesa tra Cgil, Cisl e Uil con la Confindustria che non si è tradotta in una legislazione di sostegno per l’opposizione delle altre associazioni dei datori di lavoro del Commercio e dell’artigianato.
Nelle more nell’ultimo decennio sono triplicati, sino a sfiorare il numero dei mille, i contratti collettivi sottoscritti da fantomatiche organizzazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori (i cosiddetti contratti pirata) con retribuzioni ridimensionate, e che cercano di aggirare l’ostacolo dei principali contratti nazionali ridefinendo i confini dei settori e le aree territoriali di applicazione.
Allo stato attuale l’impatto reale dei contratti pirata, anche se numerosi, risulta marginale. Ma non vanno trascurate le trasformazioni tecnologiche e delle organizzazioni del lavoro che rendono labili le definizioni settoriali e incentivano in parallelo la generazione di nuovi rapporti di lavoro funzionalmente dipendenti, ma che vengono remunerati sulla base delle prestazioni effettivamente svolte.
Sono piccole crepe, che possono aprire falle nella solidità dell’impianto generale delle tutele lavorative, e che le parti sociali principali farebbero bene a non sottovalutare.
Servono interventi incisivi in tre direzioni. La prima è quella di portare a regime i criteri di misurazione della rappresentanza allargando il perimetro dell’intesa alle associazioni degli imprenditori del commercio e dell’artigianato e di altri comparti economici.
Una seconda direttrice di intervento potrebbe essere quella rivolta a definire con un accordo interconfederale i livelli minimi salariali da attuare con i contratti collettivi nazionali, con importi che potrebbero essere potenziati da una riduzione del cuneo fiscale e contributivo anche per la finalità di rivalutare il ruolo del lavoro manuale.
Un terzo accordo interconfederale, parallelo a quello annunciato per regolare lo smart working, potrebbe rispondere all’esigenza di rendere equivalenti le tutele e le retribuzioni di base dei lavoratori parasubordinati a quelle dei lavoratori dipendenti che svolgono la loro attività nell’ambito delle medesime imprese.
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