Salario minimo e reddito di cittadinanza universale tornano alla ribalta. Il primo ripreso nel discorso tenuto ieri da Ursula von der Leyen presso il Parlamento europeo, nell’ambito di un intervento che ribadisce il proposito della Commissione di emanare una direttiva o un atto di indirizzo che orienti i comportamenti dei paesi aderenti all’Ue. Il secondo, oggetto una sortita di Beppe Grillo, che rilancia la proposta identitaria del M5s alla vigilia di un’importante, e delicata, tornata elettorale destinata a complicare ulteriormente la vita del movimento.
Come approccio teorico i due temi hanno poco in comune, se non l’evocazione di ulteriori interventi promossi dallo Stato per redistribuire ulteriori quote di reddito. Tema, quest’ultimo, che riscontra un’ampia sensibilità nella compagine governativa, e che va oltre la mera componente dei 5 stelle. E questo atteggiamento è destinato a pesare nella gestione dell’impatto occupazionale della crisi economica in atto.
L’orientamento della Commissione non rappresenta una novità, e non è destinato ad apportare significativi cambiamenti nello scenario delle politiche del lavoro. Infatti, quasi tutti i Paesi dell’Ue, Italia compresa nonostante si affermi il contrario, sono dotati di una sorta si salario minimo, come combinazione di interventi legislativi o di sostegno alla contrattazione delle parti sociali. Un approccio confermato dalla stessa von der Leyen nel corso del suo intervento nel rispetto delle competenze degli Stati nazionali e del principio di sussidiarietà che orienta l’attuazione dei Trattati e delle direttive europee negli ambiti nazionali. Più ragionevole l’obiettivo di coordinare in modo più efficace il sistema delle tutele, già oggetto di numerose direttive, anche per il fine di favorirne l’affermazione nei mercati del lavoro dei Paesi neo comunitari.
Per lo specifico italiano, in attuazione dell’art. 36 della Costituzione che prevede il diritto per i lavoratori di ricevere un giusto salario rapportato alle esigenze proprie e dei nuclei familiari di appartenenza , l’orientamento consolidato della Corte costituzionale lo ha identificato nel valore dei salari e delle tutele previste dai contratti collettivi nazionali dei settori di appartenenza, sottoscritti dalle organizzazioni più rappresentative. Un impianto che, nonostante le rilevanti evoluzioni dei settori produttivi, garantisce tuttora un corposo nucleo di tutele per il complesso dei lavoratori dipendenti.
Il reddito universale di cittadinanza, nella storica proposizione del M5s, si propone invece l’obiettivo di prevedere un reddito minimo per tutti i cittadini, indipendentemente dalle condizioni di lavoro o patrimoniali, sulla base del presupposto che l’evoluzione tecnologica riduce la possibilità di generare opportunità di lavoro in grado di assicurare la piena occupazione, e di consentire un flusso di reddito sufficiente a sostenere una domanda di beni e servizi in grado di rendere sostenibile l’evoluzione delle economie capitalistiche di mercato. In pratica, l’obiettivo diventa quello di garantire una specie di diritto al consumo delle persone, gerarchicamente superiore a quello di poter accedere al lavoro. Un’analisi affascinante, persino intrigante per la pancia delle persone, ma priva di una qualsiasi possibilità di attuazione economica e scientifica, anche nei Paesi che sono dotati di solide istituzioni di welfare che si propongono di sostenere prestazioni, servizi e redditi anche per i cittadini che non lavorano.
Alla prova dei fatti, e delle responsabilità di governo, i propositi dei 5 stelle si sono ridimensionati su un più realistico proposito di contrastare la povertà con l’introduzione del reddito di cittadinanza, non rinunciando però a edulcorare l’intervento con politiche attive del lavoro ridicole che consentono ai beneficiari delle prestazioni di rifiutare qualsiasi offerta di lavoro che non sia a tempo indeterminato e con retribuzioni inferiori a 856 euro mensili (di fatto escludendo i part-time), col il dichiarato proposito di introdurre in modo surrettizio una sorta di salario minimo di riferimento, al di sotto del quale il lavoro viene considerato privo di dignità.
Con tutta probabilità l’orientamento della Commissione europea verrà strumentalizzato per la finalità di introdurre per legge il salario minimo, esautorando di fatto la contrattazione collettiva e vanificando un impianto di garanzie consolidato negli anni. Il tutto per l’obiettivo di ancorare il complesso delle politiche del lavoro, comprese quelle passive di sostegno al reddito e quelle attive per l’inserimento lavorativo, ai principi e ai riferimenti introdotti con il reddito di cittadinanza. Condizioni che, come dimostrato nel primo anno di vigenza, disincentivano la ricerca di qualsiasi opportunità di lavoro.
Tale impianto non meriterebbe nemmeno l’onore di essere preso in considerazione se non rappresentasse una parte non marginale delle politiche del lavoro del Governo in carica, e con le quali si pensa di poter governare un processo di ricollocazione di milioni di lavoratori nel medio periodo. Senza il supporto di un’analisi degna di questo nome, in grado di offrire un minimo di credibilità per gli obiettivi annunciati dall’esecutivo.
Quello che stupisce è il comportamento delle organizzazioni sindacali e dei datori di lavoro, formalmente contrarie alla introduzione per legge di un salario minimo, e diffidenti rispetto al reddito di cittadinanza, ma incapaci di mettere in campo un’autonoma iniziativa che consenta di rendere più efficace la tutela dei trattamenti minimi previsti dai contratti nazionali di settore rispetto al dilagare del lavoro sommerso e dei contratti sottocosto sottoscritti da organizzazioni sindacali e datoriali fasulle. Rafforzare la contrattazione aziendale e territoriale, rendendo più leggeri i contratti nazionali, darebbe più forza a questi ultimi nell’adempiere al ruolo di tutela dei trattamenti minimi. Introdurre una legge che preveda i criteri per la verifica della rappresentatività delle organizzazioni firmatarie dei contratti collettivi, aumenterebbe l’autorevolezza degli accordi sottoscritti.
Questi argomenti andrebbero riportati nelle giuste sedi, ma i vuoti di iniziativa presuppongono che qualcuno cerchi in qualche modo di riempirli anche debordando dalla classica distinzione dei ruoli tra le rappresentanze politica e quelle sociali. Alle parti sociali compete mettere in campo iniziative, non solo avanzare proteste e rivendicazioni.