Che pena questa diatriba sul salario minimo. Siamo all’eterno remake dell’ipocrisia velleitaria della politica italiana. È vero, verissimo che ci sono tra due e quattro milioni di lavoratori italiani sottopagati. Ma cosa c’entri il necessario tentativo di risolvere questa vergogna con l’introduzione per legge di un salario minimo non lo sa nessuno.
In Italia vige, e meno male, la pratica, costituzionalmente avallata, dall’art.39: “I sindacati registrati hanno personalità giuridica. Possono, rappresentati unitariamente in proporzione dei loro iscritti, stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce“. Su questo presupposto, si sono stipulati in Italia ben 900 contratti di lavoro di categoria. Che regolano – o dovrebbero regolare – praticamente tutte le varietà dei rapporti di lavoro possibili e immaginabili.
Alcuni di questi contratti – ma a oggi non risulta pubblicato e discusso alcuno studio sinottico aggiornato! – regolano anche le figure contrattuali di accesso a quei lavori su basi salariali molto modeste, probabilmente al di sotto dei famosi 9 euro all’ora di cui si parla come soglia di salario minimo obbligatorio. E questo è, o potrebbe essere, un aspetto del problema, dalla soluzione – però – lapalissiana: poiché questi contratti, per il fatto stesso di essere in vigore, devono essere stati firmati dai “sindacati registrati” – come li definisce la Carta: sono circa 20 soggetti – l’unica cosa seria che può e deve fare il Governo è convocare questi sindacati, convocare le loro “controparti datoriali”, ossia i rappresentanti dei datori di lavoro, e imporre loro di verificare se esistono casi di inquadramento contrattuale “particolarmente sottopagati”.
È probabilissimo – quasi certo – che i risultati sarebbero confortanti: i contratti nazionali “regolari” non sono certo generosi, ma neanche speculativi. E non a caso episodi come quello recentissimo del commissariamento della Mondialpol per sfruttamento illecito dei lavoratori non nascono dall’applicazione di un contratto come quello, molto avaro, vigente in Italia nel settore dei servizi di sicurezza, ma dalla sua disapplicazione con mille espedienti degni del peggior caporalato.
Il punto è un altro. Le istituzioni italiane – in questo caso sia quelle centrali che periferiche – hanno smobilitato indecorosamente dalla frontiera del controllo del territorio. È quella la zona nera del nostro ordinamento. E non da oggi, se è vero che Dante scriveva, 700 anni fa: “Le leggi son, ma chi pon mano ad esse?”. Ci ricordiamo con periodico, fremente e improduttivo sdegno, di quanto sia poco protetto e controllato il lavoro quando la cronaca di sbatte in faccia l’infamia delle morti bianche da incuria, nei cantieri, nelle fabbriche, nei campi, molto peggiori della media europea, se si pensa che solo la Francia è peggio di noi.
Il lavoro nero, il lavoro sotto-inquadrato, i rapporti di dipendenza, con tanto di orari, di turni e ferie scaglionate ma senza stipendi regolari, sono la vera fonte della povertà salariale. Ma per aggredire questi problemi non c’è che mandare in giro ispettori nelle aziende a verificare contratti, fare blitz nei reparti, rompere le scatole, senza farsi corrompere. Servirebbe controllo del territorio: come servirebbe per contrastare lo spaccio di droga, l’abuso di alcol, la tratta della prostituzione… l’illecito in tutte le sue ricche manifestazioni.
Che la sinistra non lo rivendichi è normale: fa parte del peggior retaggio culturale post-comunista, il lassismo nel controllo. Ma che la destra non se ne faccia un punto d’onore, è inspiegabile.
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