L’inflazione alta, che erode il potere di acquisto dei salari e quindi di lavoratori e famiglie, è un problema significativo non solo in Italia, ma anche in Europa e oltreoceano, ed è sicuramente uno dei temi più importanti circa i quali le organizzazioni dei lavoratori devono proporre soluzioni. La ricetta italiana, in particolare sostenuta dalla Cgil di Landini, si chiama salario minimo per legge. Primo obiettivo dell’autunno sindacale, che si preannuncia caldo, è l’approvazione di una legge sul salario minimo, fissato in 9 euro, e, pertanto, primo bersaglio delle polemiche del sindacato è il Governo di centrodestra, dubbioso sull’effettiva utilità e necessità di tale normativa.



La proposta sindacale italiana è ancora poco chiara, infatti non solo non si capisce su quali elementi si fonda il parametro dei 9 euro all’ora, ma non è affatto chiaro come nella pratica tale parametro debba essere interpretato, considerando che normalmente la retribuzione è intesa come mensile e che influiscono in maniera significativa elementi quali la tredicesima, la quattordicesima, il Tfr. È poi interessante notare come la paga base oraria (se così si può chiamare) di molti contratti sottoscritti anche dalla Cgil e recentemente rinnovati, se depurata delle mensilità aggiuntive e degli elementi accessori, è ben inferiore ai sopra menzionati 9 euro all’ora: insomma, il sindacato chiede al Governo di imporre alle imprese quello che non sono riusciti a ottenere nelle trattative.



Radicalmente diverso, e con risultati per ora sorprendenti, è invece l’approccio che stanno prendendo le organizzazioni sindacali americane, e in particolare l’Uaw, il maggior sindacato americano dei lavoratori del comparto auto. Innanzitutto, il sindacato ha vissuto una profonda, e dolorosa, riforma: per la prima volta nella storia a marzo 2023 si sono tenute elezioni tra tutti gli iscritti per la nomina degli organismi direzionali del sindacato, che prima erano scelti (come avviene in Italia) dai delegati sindacali. Il nuovo Presidente, Shawn Fain, che ha vinto le elezioni di misura, è l’artefice dell’apertura delle trattative per il rinnovo della contrattazione collettiva con i big del settore sulla base di una piattaforma di richieste particolarmente ambiziosa: incremento delle retribuzioni del 36% spalmato sui prossimi 4 anni, reintroduzione di un elemento specifico della retribuzione parametrato all’inflazione (cost of living allowance), riduzione della settimana lavorativa da 40 a 32 ore a parità di stipendio, incremento della contribuzione aziendale ai fondi pensione ed estensione della polizza sanitaria anche ai lavoratori pensionati.



A partire dal 15 settembre sono iniziati scioperi a scacchiera in numerosi stabilimenti siti soprattutto nel Midwest e di proprietà dei big three: Ford, General Motors e Stellantis, i tre grandi produttori di auto americani; gli scioperi non accennano a diminuire, anzi, l’adesione agli stessi è andata aumentando negli ultimi giorni in cui ci sono circa 25.000 lavoratori in sciopero ad oltranza. È importante sapere che l’Uaw dispone di fondi per compensare i lavoratori scioperanti, che ricevono circa 500 dollari la settimana di indennità, d’altro canto, gli stipendi di un operaio specializzato del settore automotive possono arrivare anche a 30 dollari all’ora (anche se operai a termine e entry level si attestano di norma tra i 16 e i 20 dollari l’ora), cui si aggiungono premi e indennità che possono valere diverse migliaia di euro all’anno.

Gli scioperi stanno costando, alla sola General Motors, circa 12,5 milioni di dollari al giorno a causa dei blocchi della produzione e tutte e tre i grandi gruppi hanno subito ripercussioni nelle quotazioni in borsa. Anche molti lavoratori hanno subito le conseguenze degli scioperi: in diversi stabilimenti sono infatti iniziati licenziamenti e messe in aspettativa (sfruttando la normativa Usa molto favorevole ai datori di lavoro) legati ai blocchi della produzione.

Un elemento importante da aggiungere per capire la natura di quanto sta accadendo sono le conseguenze dell’introduzione dei motori elettrici nel mondo dell’automotive: le organizzazioni dei lavoratori, infatti, temono che la produzione dei motori elettrici richieda meno manodopera, in quanto la componentistica da produrre è inferiore, mentre la produzione delle batterie rischia di essere esternalizzata, sia all’estero, sia negli Stati Uniti del Sud, dove le organizzazioni sindacali sono molto meno forti. Proprio per questo il sostegno espresso dal Presidente Biden, che viene visto dai lavoratori schiacciato su posizioni ambientaliste, è stato accolto con freddezza.

Le grandi case produttrici rispondono alle richieste sindacali che stanno destinando la maggior parte dei profitti alla ricerca e sviluppo nel settore elettrico, Ford ad esempio prevede che la propria area dedicata ai motori elettrici perderà nel solo 2023 4,5 miliardi, e che non si possono permettere di sostenere investimenti così significativi e di venire allo stesso tempo incontro alle richieste di incrementi provenienti dai sindacati. Inoltre, richieste di incrementi salariali troppo importanti darebbero un ulteriore vantaggio economico ad altre aziende, ad esempio la Tesla, che non solo non applicano contratti collettivi, ma addirittura osteggiano apertamente la creazione di organizzazioni sindacali nei luoghi di lavoro (anche su questo tema, la normativa Usa è molto meno tutelante della libertà sindacale rispetto a quella italiana). In ogni caso le case produttrici si sono tutte e tre attestate su proposte di aumenti salariali attorno al 20% (da spalmarsi nei prossimi 4 anni) e di ulteriori sostegni economici ai lavoratori. È notizia di poche ore fa che l’Uaw ha sospeso alcune iniziative sindacali nei confronti di Stellantis per analizzare con più calma una articolata proposta di rinnovo contrattuale elaborata dal gruppo.

Non è ora possibile prevedere come andranno a finire le trattative, ma probabilmente le parti alla fine troveranno un accordo su incrementi salariali significativi, partecipazione dei lavoratori agli utili dell’impresa e miglioramenti delle condizioni previdenziali dei lavoratori. Si tratterà in ogni caso di incrementi salariali che le organizzazioni sindacali non ottengono in Italia dagli anni ’70. Sicuramente il comparto automotive Usa è un settore molto particolare, tuttavia, forse, quanto sta accadendo potrebbe dare alcune indicazioni alle organizzazioni dei lavoratori nostrane: concentrarsi sui rinnovi dei contratti collettivi, sulla retribuzione premiale legata a utili e produttività aziendale, sulla salvaguardia della produzione minacciata anche dalle politiche ambientaliste, e guardare al Governo come un interlocutore e un garante, senza delegare allo stesso compiti propri e considerandolo poi un nemico se questi compiti non vengono svolti.

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