In apparente contraddizione con le dichiarazioni degli ultimi mesi, Fratelli d’Italia ha presentato ieri alla Camera un emendamento che supera la proposta dell’opposizione in materia di salario minimo legale (la famosa cifra fissa di 9 euro lordi da imporsi ai contratti collettivi come pavimento retributivo inderogabile) sostituendola con una delega al Governo per l’attuazione del diritto di ogni lavoratore e lavoratrice a una retribuzione proporzionata e sufficiente, come dettato dall’articolo 36 della Costituzione. Non si tratta più di “salario minimo legale”, bensì di “trattamento economico complessivo minimo”.
La differenza non è di facciata, ma di sostanza. Se l’opposizione è da mesi che promuove una soluzione poco inclusiva della libera contrattazione, anzi, al contrario, diffidente verso la capacità delle parti sociali di difendere il potere di acquisto dei lavoratori (si pensi ai ripetuti, e spesso poco informati, richiami al contratto collettivo dei servizi fiduciari), il testo depositato ieri alla Camera va nella direzione della valorizzazione della contrattazione, tanto da individuare il trattamento economico complessivo minimo da riconoscersi a tutti i lavoratori in quello fissato dal contratto collettivo più applicato nella categoria di riferimento.
Questa è una novità assoluta per il nostro diritto del lavoro. Il superamento del dibattito sulla rappresentatività (“maggiore” per la legislazione antecedente agli anni Duemila, “comparata” per quella successiva) per il tramite del criterio della misurazione della diffusione è stata per qualche anno un’ipotesi considerata dalla dottrina, ma sempre ignorata dal legislatore e dalle parti sociali. Qualora la delega della maggioranza fosse approvata, questo diventerebbe invece il criterio per l’individuazione dei contratti collettivi ove sono contenuti i trattamenti retributivi di riferimento.
Questi, seconda novità rispetto alla proposta dell’opposizione, non sono da individuarsi nei minimi tabellari (c.d. trattamento economico minimo), bensì nel “trattamento economico minimo complessivo”, ossia nella somma di tutte le voci retributive (dirette o indirette) che il contratto collettivo riconosce come obbligatorie per la collettività lavoratori del settore, comprese le prestazioni di welfare contrattuale e i trattamenti differiti o di garanzia. Restano escluse da questo calcolo tutte le componenti accessorie o variabili. Invero la delega di FdI non definisce il termine, ma l’utilizzo della medesima espressione coniata dal Cnel poco più di un mese fa pare rimandare alla definizione fornita in quella sede.
La tenuta giuridica e operativa del nuovo criterio della “maggiore applicazione” è tutta da verificare e di certo in queste ore molte associazioni datoriali (più che quelle sindacali) sono concentrate sulla verifica della rappresentatività del proprio contratto collettivo qualora questo principio diventasse legge: non poche sono infatti le sovrapposizioni dei perimetri contrattuali e questa improvvisa e brusca opera di razionalizzazione potrebbe mettere in competizione sistemi contrattuali storicamente molto diversi per logiche e trattamenti.
Il Governo sarà chiamato a operare tenendo conto della storia del nostro sistema di relazioni industriali, che non merita di essere svenduto “un tanto al chilo”. Nel diritto del lavoro il diavolo si nasconde spesso nei dettagli e la delega approvata ieri, se maneggiata senza cura, rischia di esplodere tra le mani della politica e delle parti sociali, generando scenari oggi non facilmente immaginabili.
@EMassagli
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