La proposta di legge presentata dalle opposizioni al Governo Meloni e relativa all’introduzione anche in Italia del salario minimo stabilito per legge pone drammaticamente l’urgenza di riaprire una discussione pubblica sul pluralismo sindacale e sulle relazioni industriali in Italia.
L’Italia fu per certi versi al centro – a partire dalla metà degli anni Sessanta e sino agli anni Ottanta del Novecento – della discussione sulla natura e sulle funzioni del sindacato. Una discussione che non poteva non iniziare a partire dalla definizione del cosiddetto “interesse dei lavoratori”. Per la Cgil e per le forze politiche cui essa faceva riferimento, gli interessi erano e sono “di classe” ed erano così definiti dalle direzioni politico-sindacali che sovradeterminavano decisioni di breve e strategie di lungo e medio periodo delle organizzazioni partitiche e sindacali.
Spiccava la differenza teorica e pratica con la Cisl di Giulio Pastore, che fondava le sue idee forza, invece, sulla teoria del sindacato come associazione introdotta da Perlman, teorico importantissimo del sindacalismo nordamericano e del pluralismo sindacale alla Kann Freud. Teoria stilizzata e arricchita in forma incomparabile da Mario Romani nel suo libro Per una teoria dell’azione sindacale del 1951, testo a cui Giovanni Marongiu e Vincenzo Saba – negli anni gloriosi della Fondazione Pastore con Giovanni Cali come segretario – diedero via via una risonanza tanto proficua dal punto di vista teorico, quanto meno produttiva dal punto di vista operativo.
Le lotte dell’autunno caldo, lo spontaneismo movimentista e anarco-sindacalista, la trasformazione dei nuclei dirigenti operai – con la prevalenza degli operai senza mestiere e gli aumenti uguali per tutti – fecero il resto, disperdendo un immenso patrimonio cui anche la Cisl – sul piano contrattuale – via via si distaccò, permettendo la votazione dei contratti anche agli operai non iscritti al sindacato.
Si abbandonò così la teoria geigeriana che definiva gli interessi come interessi soggettivi riconosciuti volta a volta comunitariamente tramite l’associazione e non ipostatizzati una volta per tutte (“l’interesse di classe”), così da scambiare gli interessi delle oligarchie sindacali per quelli dei rappresentati che debbono invece – volta a volta – essere identificati.
La legge doveva intervenire su materie estranee ma non oppositive al sistema di relazioni industriali che così veniva creandosi.
La Cisl, nonostante tentennamenti e nonostante l’abbandono di quel dibattito teorico che la rese grande ai tempi di Vincenzo Saba e Giovanni Marongiu, resta ancor oggi – e giustamente – diffidente al ricorso della legge: la legge incatena i rapporti di forza, diminuisce il grado di pluralismo, dà allo Stato un ruolo non opportuno nel campo delle relazioni industriali arrivando così a distruggerle di fatto.
Il concetto stesso di relazioni industriali non può reggersi nelle braccia lassalliane delle Stato, perché deve essere la capacità di lotta dei lavoratori e la loro volontà associativa a definire volta a volta i rapporti di forza con i datori di lavoro.
La legge sul salario minimo nasce da un’esigenza profonda e oggettiva: i salari sono troppo bassi, come la produttività del lavoro, e la gravità dello sfruttamento di un lavoro non solo mal pagato, ma troppo spesso pericoloso e intermittente è sotto gli occhi di tutti. Ma legge non combatterà il lavoro povero, incrementerà invece il lavoro nero, togliendo acqua ai pesci, ossia alle piccole e medie imprese – che sono la forza dell’Italia – che solo nella contrattazione possono trovare il giusto equilibrio tra profitto e salario. E toglierà l’anima ai lavoratori dipendenti che solo nel riconoscimento dell’altro, come compagno di lavoro e di lotta, possono trovare la via dei diritti che segue quella della dignità acquisita col compimento dei doveri del lavoro. E segue altresì la dignità del datore di lavoro, che nelle relazioni industriali trova il miglior strumento del suo potere costituzionalmente definito. Tutto il contrario della via che si persegue invocando il salario minimo per legge.
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