Nei giorni scorsi la commissione Lavoro della Camera dei deputati ha ascoltato le ragioni delle lobbies italiane in relazione all’introduzione, per legge, di un salario minimo. Dobbiamo ricordare che in Italia esiste già un salario minimo: è quello fondato sulla Costituzione attraverso l’opera interpretativa della magistratura che si riferisce alle tabelle retributive dei contratti collettivi.



E allora perché si insiste con questo provvedimento? Perché ci sono alcuni lavoratori non coperti dai contratti collettivi e, altri, coperti da contratti collettivi pirata. Ossia contratti collettivi stipulati da sindacati di comodo – o, comunque, scarsamente rappresentativi – con l’unico scopo di ridurre il costo del lavoro attraverso la previsione di minimi retributivi più bassi rispetto a quelli individuati dai contratti stipulati dai sindacati tradizionali in quanto più rappresentativi.



Le lobbies sentite dai deputati – Cgil, Cisl, Uil, Confindustria, Ance, Confapi, Assolavoro, Consulenti del lavoro, e così via – si sono sostanzialmente concentrate sulla misura del salario, sul suo ammontare. Ma le lobbies sindacali hanno fatto, invece, una proposta più interessante: attribuire valore legale alle tabelle retributive dei contratti collettivi. In tal modo si darebbe attuazione all’art. 39 della Costituzione che prevede che i contratti collettivi abbiano efficacia nei confronti di tutti i lavoratori, purché siano stipulati da sindacati registrati in quanto dotati di un ordinamento interno a base democratica. Anzi, si darebbe attuazione all’art. 39 senza rinunciare alla libertà sindacale in quanto nessuno dei sindacati si è mai registrato.



Proposta interessante ma difficilmente percorribile. Perché si dovrebbe attribuire un tale potere – quello di stabilire i minimi retributivi – a dei soggetti di cui non si ha il controllo? Perché il legislatore, ossia i politici, ossia lo Stato, dovrebbe farlo? Quello che ci ha insegnato la storia della costituzione dello Stato moderno è che, questo, ha una tendenza a incrementare il suo potere, estendendolo e concentrandolo. Quindi è probabile che il salario minimo non farà riferimento ad altri.

Stabilire per legge una retribuzione minima oraria comporta una riduzione degli spazi di libertà dei privati. Una riduzione della libertà dei lavoratori, degli imprenditori, e dei loro rispettivi rappresentanti. Conseguenza dell’aumento del potere pubblico. Inoltre, potrebbe determinare effetti diversi da quelli riconducibili alle intenzioni dei sostenitori, come sempre ha dimostrato di fare l’intervento pubblico nell’economia. Come nel racconto della finestra rotta di Frederic Bastiat, c’è ciò che si vede. ma c’è anche ciò che non si vede.

Concretamente, ed esemplificativamente, l’introduzione di un salario minimo potrebbe causare disoccupazione, lavoro nero, aumento della tassazione e della criminalità. Sono i lavoratori con minori competenze e limitate esperienze lavorative quelli che percepiscono le retribuzioni più basse. Ma nessun imprenditore è disposto a pagare tali lavoratori più di quanto possano rendere, quindi rimarranno disoccupati. E in quanto disoccupati non potranno acquisire competenze sul campo e rimarranno inesperti e, quindi, poco attrattivi per le imprese. Disoccupati per sempre.

Rimanendo senza lavoro graveranno sulla società che – attraverso il reddito di cittadinanza, ossia attraverso le note politiche redistributive dello Stato – dovrà garantire loro un ammontare di denaro prelevato dalle tasche dei contribuenti. Non solo. Chi è disposto a lavorare per un salario inferiore a quello legale lo potrà fare solo di nascosto, ossia in nero, perdendo anche quelle minime garanzie riconosciute nei contratti di scambio.Ma il lavoro nero è anche quello dei mercati clandestini: droga, prostituzione, gioco d’azzardo. Mercati che sono connotati anche dalla presenza di violenza.

Insomma, la pretesa di questo Governo di conoscere tutte le variabili in campo per individuare quel minimo salario sotto il quale nessuno, e a nessuna condizione, sarebbe disposto a lavorare ne fa un emulo dei pianificatori centrali socialisti del secolo scorso che, nella loro visione paternalistica, hanno ottenuto solo un aumento della povertà, ma distribuita con criteri di eguaglianza.

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