La notizia dell’attentato a Salman Rushdie ci impone alcune riflessioni semplici, ma anche risolutive.
La storia è nota: il 14 febbraio 1989, l’ayatollah Khomeini aveva invitato tutti gli autentici musulmani a uccidere, dovunque si trovasse, il noto autore dei Versi satanici. Un tale invito si rivelava tanto più credibile di trovare zelanti esecutori, quanto più vi era stata aggiunta una taglia di tre milioni di dollari per chi avesse realizzato l’impresa.
Le conseguenze furono meno note: dal sequestro del libro in molti Paesi ai tentati assassini dei suoi traduttori e dei suoi editori, in qualche caso coronati tragicamente da successo.
Il problema dell’islam radicale continua a sussistere anche se, scavalcati da altre gravi tensioni, cediamo spesso alla tentazione di considerare risolto tutto ciò di cui i media non parlano più. Archiviato il Bataclan, la strage di Nizza e l’assassinio di Padre Hamel, non abbiamo prestato la dovuta attenzione al fatto che le nuove organizzazioni jihadiste, lo stesso anno dell’assassinio del sacerdote a Saint-Étienne-du-Rouvray, il 2016, avessero incrementato di altri 500mila dollari la taglia sullo scrittore.
Così, l’assassinio di Samuel Paty, un insegnante di scuola secondaria in una cittadina della regione parigina, (Conflans-Sainte-Honorine), prima minacciato e poi trovato decapitato il 16 ottobre 2020 per avere osato dibattere serenamente in classe con i suoi alunni il problema delle caricature di Maometto, passa anche questo semi inosservato.
Il problema delle variabili impazzite all’interno dell’islam radicale continua non solo a sussistere, ma anche ad essere tanto più pericoloso quanto più, proprio in quanto opera di assassini solitari e, il più delle volte, senza una rete organizzativa alle loro spalle, può oggettivamente apparire ovunque.
Tra i fattori che lo producono, oltre la nuova ondata di risentimento continuo nei confronti dell’Occidente, va aggiunto certamente il silenzio imbarazzato di tanta cultura contemporanea nei confronti di questa zona buia, ma tanto tragicamente attiva, dell’arcipelago islamico.
Ad oltre trent’anni dalla fatwa contro Salman Rushdie ed a seguito di una catena non irrilevante di attentati, qualsiasi analisi sul delirio fondamentalista di matrice religiosa, risulta bloccata dal timore di offendere una religione, l’islam, che è anche una cultura, un principio regolatore del diritto ed un modello politico.
L’attentato a Salman Rushdie, così come i mille gesti omicidi che lo hanno preceduto e quelli che gli faranno purtroppo seguito, dimostra quanto un tale riserbo sul fondamentalismo islamico non abbia prodotto nessun risultato ma, al contrario, abbia reso possibile l’estendersi di una deriva che, mai come adesso, diventa necessario analizzare.
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