Le giornate di punta della breve settimana del Salone del Libro di Torino 2024 sono sempre state il sabato e la domenica. Probabilmente in quei giorni Russell Crowe si reca a cavallo davanti all’ingresso, vestito da centurione romano, e grida di nuovo la celeberrima battuta del film The Gladiator: al mio segnale, scatenate l’inferno! Ed effettivamente all’apertura dei cancelli l’inferno si scatena: una folla gigantesca, in fila all’ingresso già da un bel po’, fluisce nei padiglioni del Salone del Libro in maniera così tumultuosa che per qualche ora sarà difficile camminare, passare da un corridoio all’altro e anche solo affacciarsi agli stand degli editori che hanno saputo proporre libri di personaggi di moda oggi. La fila sarà, per le migliaia di legionari del Salone, l’esperienza costante e duratura fino al pomeriggio inoltrato: c’è fila per mangiare e per bere, per il gabinetto e perfino per un caffè. Occorre calcolare bene l’ingestione di liquidi perché raggiungere eventualmente una toilette rappresenterà un impiego di tempo non inferiore all’ora.
La fila fa parte costante del paesaggio interno del Salone del Libro: una serpentina di centinaia di metri di persone in coda annuncia che nella sala in fondo, grande ma non abbastanza per tutti costoro, sta per intervenire Zerocalcare. Un’altra fila blocca il flusso delle persone per due lati di un grande quadrato di stand: il vostro cronista chiede a una signora per chi sta in coda e gli viene risposto: Roberto Saviano. A ben pensare, sono anni che una serie costante di personaggi interviene al Salone del Libro, accolti da un pubblico numerosissimo e paziente. Le dichiarazioni di tanti esponenti, principalmente del centrodestra, avevano annunciato che col cambio di colore al governo anche il Salone sarebbe diventato perlomeno più aperto e plurale. Qualcosa non deve aver funzionato perché l’impressione, vivendolo da dentro, è che tutto sia come sempre, a parte le facce dei ministri, a cui si concede un’irrilevante passerella.
Il problema di fondo rimane: perché da una parte il libro attrae, in presenza, folle oceaniche, dall’altra le stesse folle, che dovrebbero ipoteticamente fare la fortuna di editori e scrittori, comprano sempre meno libri? Il Salone del Libro di Torino è un evento molto rappresentativo e di utile osservazione per tentare di districare la questione. Che tipo di incontri si svolgono infatti nelle sue sale principali? In che modo i big del libro, così spasmodicamente ricercati dal pubblico, si presentano ai fan? La risposta è facile: con un monologo. Arrivano, fendono la folla adorante, si siedono su un palco già lontano, propinano un discorsetto preconfezionato in modo carino e intrigante su qualche concetto di moda, magari politico, e se ne vanno. È vero che molti incontri prevedono anche un cosiddetto moderatore, persona seduta accanto al vip che gli porge domande e microfono. Ma non occorre un senso critico particolarmente acuto per capire che si tratta di domande finte, farlocche. Tutte le interviste che oggigiorno si fanno, non solo qui, sono finzioni ormai.
Eccoci dunque arrivati al modello culturale che il Salone del Libro propone, inserito nell’ingranaggio del mercato e dello spettacolo più che in quello della cultura: il monologo. Da tempo ormai è questo lo stile adottato dagli uomini che consideriamo di cultura. Ne abbiamo avuto un esempio recente con Antonio Scurati, col suo intervento per il 25 aprile poi tagliato in televisione. Di che si trattava? Di un monologo, appunto, la cui mancata messa in onda ha sollevato un’ondata di scandalo a sinistra. La vicenda aveva un che di contraddittorio però: la Resistenza ha avuto come grande merito storico quello della collaborazione di tutte le forze democratiche per scacciare il fascismo, il nemico comune. È stata il contrario di un monologo: uomini di tutte le idee, perfino conservatori e monarchici (ricordiamoci di Beppe Fenoglio, il maggior cronista della lotta di liberazione, un gigante della letteratura) hanno saputo dialogare e combattere insieme, e poi scrivere la Costituzione, sempre dialogando. Mussolini faceva monologhi, non chi ci ha liberato da lui. Suona strano che chi oggi vorrebbe raccontarci quella storia riattivi lo stesso metodo.
Che la cultura del monologo sia vincente al Salone del Libro di Torino lo si vede dappertutto. Eclatante come venga utilizzata l’immagine di Alessandro Barbero, i cui monologhi sulla storia attirano ovunque le stesse folle adoranti. In Fiera girano in questi giorni magliette con su scritto: chiedilo ad Alessandro Barbero. Proprio così: si possono lasciare da qualche parte bigliettini con quesiti di tutti i tipi, a cui lo storico dovrebbe rispondere. Altra contraddizione della nostra epoca: da una parte smontiamo ogni autorevolezza alla tradizione, ai maestri, al passato. Dall’altra eleviamo nuovi idoli, rispolveriamo gli ipse dixit, accorriamo entusiasti al monologhista di turno.
Chissà, forse è per questo che di gente al Salone ce n’è sempre di più e di libri se ne vendono sempre di meno. La cultura del monologo non può educare alla lettura, perché la cultura è dialogo, coinvolgimento di chi ascolta nella conversazione, ascolto di tutti e di tutte le posizioni. Il contrario di quanto accade qui, negli incontri più osannati. Ma approfondiremo.
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