Il Salone del Libro di Torino è quella roba che spesso ci pensi durante l’anno, un po’ come il compleanno di uno di famiglia. E la domanda è, quando ci pensi, chissà se riuscirò ad andarci, magari invitato dal tuo editore o direttamente dall’organizzazione. Insomma, quando il Salone è chiuso si favoleggia fino a quando non arriva aprile. Ad aprile ti sale l’acquolina alla gola anche – forse soprattutto – se non hai ricevuto inviti e vai a Torino da semplice lettore. Quest’anno, però, per la prima volta in 32 anni, credo tutti, ci siamo chiesti “ci vado o no?”. La storia la sappiamo, non aggiungiamo pubblicità gratuita a chi non se la merita, per quel punto nero tutti ci siamo posti questa domanda e l’esercito dei lettori, come volevasi dimostrare, si è diviso tra quelli che sì, ci vado, e quelli che no, non ci vado. Io per onore di cronaca ero tra quelli che sì, ci vado perché provengo dal mondo animale e, quando serve, per istinto sono portato a difendere e a marcare il territorio. Poi, alla fine, prima di cominciare, hanno risolto tutto, guadagnandoci tutti qualcosa e bon.



Quindi quando ero davanti ai cancelli tutto è tornato ad essere come gli anni passati. Il rito è tornato a compiersi inalterato. Adrenalina a mille frenata dalla lentezza dello scorrere delle file. Già lì ti rendi conto che c’è qualcosa di strano. In qualunque altro posto una lentezza così porterebbe qualcuno a ingiuriare e subito diventare capo popolo di un esercito. A Torino, in fila per entrare al Salone del Libro, no. E neanche ci fai caso subito, lì per lì, sorridi e la gente ti sorride, manco fossimo tutti superstiti di una strage (che sembra un’esagerazione, ma non lo è).



Quando finalmente hai superato il gabbiotto della biglietteria o degli accrediti e stai per entrare – be’! – è il momento migliore di tutta la tua permanenza al Salone. Qualsiasi peso tu stia portando (acqua, cibo, libri, manoscritti, etc.) in quel momento ti senti leggero e padrone di te stesso. Dura poco, lo sapete tutti. Appena entri inizia lo spaesamento. Appena hai superato le porte vetrate del Lingotto ti senti piccolo e smarrito. Subito, fermo, quasi immobile con il corpo, ti muovi solo con gli occhi e cerchi la mappa come se ti aiutasse a trovare il tesoro (che sembra un’esagerazione, ma non lo è). Una volta trovata prendi tutto quello che puoi. E fai una cosa che credo un po’ tutti fanno, cercano lo stand o la sala che più gli sta a cuore (io, quest’anno, lo stand della Regione Puglia). Ti orienti, comprendi la strada che devi fare, riponi la mappa nella tua borsa e, forse, non la prenderai più. Forse non la prenderai più perché dopo accade che ti lasci guidare tra gli stand dal tuo istinto di lettore. Ognuno di noi ha le sue preferenze, case editrici che ama più di altre, libri in sospeso che, per un motivo o per un altro, non sei ancora riuscito a comprare e ogni volta che ci pensi ti vengono i sensi di colpa. Bene, al Salone del Libro esiste questa sorta di indulgenza, l’acquisto espia dai peccati. Insomma, è l’occasione giusta, ora o mai più (nel mio caso si trattava di alcuni libri pubblicati da Poiesis Edizioni). All’inizio sei ancora nel budget e via! 



Poi arriva il momento durante il quale ti guardi attorno, inizi a guardare non più stand e copertine di libri, ma inizi a guardare le facce delle persone. Tante scolaresche. Tanti ragazzi. Tante persone, ma davvero tante, tutte composte, educate, magari con i piedi doloranti, ma sorridenti. Ebbene, non ve lo devo confessare io, ma il Salone del Libro, alla fine di tutto, è un grande mercato. Prima, i primi anni, si chiamava “Fiera” e forse era la parola più onesta da usare, perché di quello si tratta, eppure c’è qualcosa che lo rende unico questo posto qui. Ed è la gente che lo vive. Questa gente qui aspetta un intero anno per farsi venire le bolle ai piedi e le caviglie gonfie per ritrovarsi, per sentirsi meno sola, per ricordarsi che sì è ancora una comunità e che siamo ancora la bella faccia dell’umanità, quella senza punti neri.