Parto per il Salone del Libro di Torino il 19 maggio, venerdì mattina: il giorno prima mi sono perso l’inaugurazione, e non mi dispiace granché (c’erano Nicola Lagioia, direttore del Salone, Ignazio La Russa e Gennaro Sangiuliano, ministro della Cultura), ma di essermi perso ad esempio Alessandro Baricco sì; quando parla in pubblico offre sempre spunti originali, soprattutto sull’arte di raccontare storie, come ha fatto a Torino. Il viaggio, dalla natìa Romagna è di oltre quattrocento chilometri, interamente trascorsi sotto la pioggia, con tratti di autostrada chiusa per la recente, e tuttora imperante, alluvione. Il che non ci ha fermato: alla fine del Salone risulterà che tra i 215mila visitatori totali (risultato in crescita) dall’Emilia-Romagna ha raggiunto Torino il 93% in più di miei corregionali. Crescita confermata da ogni regione, e anche la scommessa di rendere il Salone non solo piemontese ma nazionale e internazionale è riuscita.



Ciò non toglie la fatica del primo giorno. Arrivo con gli ingressi ai padiglioni ancora chiusi, ma già lunghe code di visitatori sotto l’acqua scrosciante. Il gigantesco bruco del traffico intorno al Lingotto, sede del Salone, sta per paralizzarsi. In più gli ingressi ai parcheggi sono bloccati dalla polizia, poiché spesso sono sotterranei o hanno solo la rampa per arrivarci interrata, cioè allagata o a rischio. Un delirio. Ma la cortesia piemontese evidentemente contagia tutti, perché con pazienza tutti attendono, bagnati e frementi di entrare. Quando i cancelli si spalancano, fanno l’effetto, per rimanere in metafora, di una diga che viene aperta: un’autentica fiumana di persone invade i padiglioni: A, B, C e Oval. Non sono informato di quanti chilometri quadrati siano, ma ognuno di quelle migliaiate di visitatori avrà percorso migliaiate di metri alla fine del giorno.



Il Salone si deve frequentare con un minimo di programma, sì, ma con la libertà che esso possa saltare e l’apertura necessaria a farsi sorprendere da incontri imprevisti. Ci sono 573 stand di editori e 48 sale di conferenze ufficiali: le definisco così perché in realtà in tantissimi stand si svolgono in continuazione incontri, presentazioni di libri, dialoghi con i visitatori, che non sono inseriti nel programmone generale, ma solo nei post della piccola editrice o di un autore: si parla di libri, di esperienze di scrittura, di percorsi di lettura in centinaia di occasioni, spesso con dieci, venti, trenta ascoltatori, e magari è proprio qui che si incontra la perla, l’esperienza geniale, la novità vera.



Al Salone del Libro di Torino vanno praticamente tutti coloro che hanno prodotto di recente, in qualsiasi modo, l’oggetto libro o l’esperienza scrittura. Cammino per i corridoi, zigzagando continuamente persone, e posso imbattermi in Enrico Mentana, che scorre davanti a me frettoloso e serio; mi giro e vedo quel comico, di cui non ricordo magari il nome, intercettato l’altro giorno nello zapping serale e che evidentemente ha scritto un libro; in un vasto stand aperto scorgo un enorme imbottigliamento di persone e noto che laggiù, sul palco lontano, Zerocalcare sta dialogando con una presentatrice della sua seconda stagione in arrivo su Netflix; ogni tanto passano personaggi in giacca e cravatta circondati da personaggi più grossi in giacca e cravatta e faccia truce, e capisco che è uno importante, forse un politico, anche se non lo riconosco. È continuamente così.

Alcuni personaggi sono caratteristici: lo scrittore medio, non famoso per merito della tv, ma che vendicchia bene, generalmente brizzolato e con gli occhiali a lenti rotonde, cammina con la faccia tra lo sperduto e il seccato; il suo snobismo gli fa venire il dubbio sull’essere in un luogo così pop, ma in realtà è felicissimo dell’invito, cosa che non può dar da vedere: lo accompagna generalmente una donna, una specie di vestale, che ha il compito di indirizzarlo allo stand giusto, un po’ come si fa coi ciechi.

Ci sono gli autori giovani, le scoperte da opera prima, con gli occhiali rotondi anche loro, ma entusiastissimi di essere al centro del mondo appena sparato il primo colpo, che vanno diritti alla meta. I pesci maggiormente fuor d’acqua sono i vecchi professori e scrittori, vestiti sbagliati, in modo pesante, coi cappotti in corso di disfacimento come loro, con improbabili borse portacartame, per fortuna anche loro assistiti dalla vestale di turno: probabilmente sono quelli che ne sanno di più.

Ma l’equivoco del Salone del Libro, fomentato dalle banali dichiarazioni di politici e organizzatori, è che sia un evento culturale: la cultura è importante, bisogna leggere di più… Certo, c’è anche la cultura, ma qui soprattutto si tratta del Salone “del Libro”: libro come oggetto, come evento pubblico, come specchio rifrangente dello spettacolo (specchio è la parola chiave del Salone quest’anno), insomma libro essenzialmente come merce. Molti intellettuali storcono il naso, ma senza ragione. Intorno al libro non ci sono più solo letteratura e cultura: è stato conquistato ormai anche da cose come l’immagine, lo spettacolo, l’effetto speciale ed effimero, il meticciato con ogni settore della vita. Il libro è un oggetto prismatico, polifunzionale, aperto. E Torino ha dimostrato che, per sopravvivere contro la concorrenza dei social e della virtualità, deve sempre più assomigliare a loro, pur mantenendo un alone che si può definire, diciamo così, culturale.

I giorni migliori per stare qui sono quelli feriali, il primo e l’ultimo: giovedì perché sono arrivati ancora in pochi e lunedì perché molti se ne sono andati: in effetti la domenica sera chi cerca un posto in treno lo trova solo tardi, e forse. Durante gli altri giorni è un massacro: scorrendo per le vie di Torino ne ho attraversata una dal nome buffissimo, un grande viale chiamato Unione Sovietica, cioè nominato con qualcosa che non esiste più.

Ma anche al Salone c’è una caratteristica identica a quella tipica, per chi si ricorda, dell’Unione Sovietica: le file. Come a quei tempi, lassù, si faceva la fila per tutto, anche per comprare mezzo chilo di zucchero, al Salone è uguale. Rispetto alla marea umana ci sono troppo pochi bar, gabinetti, luoghi di ristoro, sedie nelle sale convegni, parcheggi, panini, acqua, tutto. Nei tre giorni del fine settimana è impossibile bere un caffè in meno di mezz’ora. Visitare lo stand di un editore un po’ noto implica fendere tre strati di persone che guardano e palpeggiano libri. Il cibo esposto basta per un decimo dei visitatori, forse; le macchine vengono lasciate in luoghi assurdi nonostante le facce truci dei vigili urbani e i camioncini che passano ininterrottamente a prelevare i fuorilinea. O il successo è stato enorme e imprevisto, o l’organizzazione ha qualche correzione da fare: se i romanzi di Lagioia sono organizzati come il Salone che dirige, è proibitivo leggerli.

Ci sono in effetti episodi incresciosi. Al ministro della famiglia Roccella gruppi di contestatori impediscono di parlare e Lagioia, chiamato ad intervenire, difende i contestatori, in pratica, e attacca il Governo. C’era un vecchio detto, attribuito a Voltaire: “Non sono d’accordo con quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo”. Pare che la storia di Voltaire sia una fake news, ma questo resta un concetto comunque apprezzabile, e apprezzato un tempo; meno adesso, soprattutto evidentemente dalla dirigenza del Salone.

C’è la storia delle mappe: la distribuzione degli stand e degli editori è praticamente causale, solo la zona dei fumetti ha una certa omogeneità. Agli incroci dei corridoi ci sono gli elenchi degli editori, con i numeri e le lettere della loro posizione: ma molti nomi sono introvabili, un po’ per strane diciture, un po’ perché ospitati da stand comuni, soprattutto delle regioni, che non riportano i nomi degli editori ospitati. Un labirinto, un guazzabuglio di difficile decifrazione. Si vedono in continuazione persone disperate, aggirarsi perdute nel mastodontico labirinto del Salone.

Ma alla fine quasi tutto fila liscio: è sempre bello in fondo incontrare gli autori, aggiungere pensiero ai propri pensieri, spalancare comunque la mente e la ragione. Lunedì, giorno di chiusura, è quello dell’invasione delle scuole. La folla è molto ridotta, e composta in gran parte da ragazzi e bambini, perfino della scuola materna. Mi avvicino proprio a un gruppo di questi, esibisco il tesserino da giornalista e chiedo alla maestra si posso fare una foto. Preferisce di no, vuole difendere la privacy dei bambini e la accontento e la apprezzo per questo. Via, ficcanaso. Non ci sono più intoppi, è addirittura possibile farsi un caffè. Solo gli stand dei manga giapponesi sono presi d’assalto: che si sia in procinto di giapponesizzare i nostri giovani?

Finalmente posso aggirarmi per gli stand senza che i miei piedi vengano ripetutamente calpestati e il fiato di qualcuno mi vellichi il collo. Gli editori e i loro collaboratori sono disponibili a chiacchierare più a lungo, mi faccio raccontare esperienze di lavoro, di ricerca, di scoperte, di progetti. È un mondo, quello dei libri, fatto di persone capaci di iniziativa, di chi sa fare scelte coraggiose, di impavidi al rischio. Compro diversi libri, per me e per gli amici.

Da ultimo riesco a staccarmi, riprendo la strada e l’autostrada, finalmente tutta aperta, e mi sento più ricco, più sbattuto, più vivo. Ah, sorpresa non da poco: c’è il sole.

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