L’editoriale del 13 luglio 2019 della prestigiosa rivista The Lancet intitolato “Physician burnout: a global crisis”, ha posto a tutta la comunità scientifica e medica internazionale un problema sempre più emergente nella medicina moderna: il “burnout” dei medici, una sindrome caratterizzata da tre elementi: percezione di mancanza di energia (esaurimento), aumento della distanza tra sé ed il proprio lavoro (che sfocia in cinismo o pessimismo) e, da ultimo, una ridotta efficienza professionale.
L’articolo sottolinea come tale sindrome colpisca soprattutto medici giovani, che lavorano in ospedali ad alta specializzazione. Questo fenomeno, alquanto preoccupante, è molto diffuso: è stato stimato che con diversi livelli di gravità colpisca circa l’80% dei medici negli Stati Uniti ed in Cina; secondo il Sole 24 Ore questa sindrome da stress legata al lavoro è in sensibile incremento anche in Italia, con percentuali di circa il 30%.
Ma quale è la radice profonda di tale fenomeno, che non colpisce solo il mondo della sanità? Lo stress da lavoro è un destino inevitabile per chi si occupa di medicina? Come affrontarlo? Esiste una “terapia”? In un recente dialogo tra il cardinale Scola ed un gruppo di medici ed infermieri, alla domanda di un anestesista che dichiarava la propria fatica a “reggere” un lavoro che non lo soddisfa più, ed un aiuto a non perdere “l’anima” della sua professione, veniva risposto con questa semplicità: occorre tornare non tanto al perché della professione, ma al “per chi” essa esiste. Il tempo che viviamo ha come caratteristica fondamentale l’aver prodotto un’idea di “persona” per cui essa sarebbe riducibile ad una serie di “bisogni”. Nel nostro ambiente questa riduzione della persona a puro fatto “biologico”, ed il lavoro medico a pura prestazione “tecnica” ha determinato un cinismo ed una progressiva separazione tra la coscienza del proprio compito e il “grido” che emerge evidente nella realtà quotidiana.
Ma non basta “sapere come è” il problema, per fare un’esperienza nuova. Da dove ripartire? Di fronte a tale riduzione noi reagiamo con la riduzione della nostra attesa, dell’attesa del nostro cuore. Ciò che ci aspettiamo dalla vita e dal nostro lavoro si riduce inevitabilmente. Nel migliore dei casi ci si accontenta del palliativo dell’“eccellenza”: il servizio eccellente, la posizione eccellente. La gratificazione suprema cui si pensa di poter aspirare è il sorriso compiaciuto del capo che gratifica la “professionalità” della nostra prestazione o l’“utilità” del nostro lavoro agli scopi da lui, o da chi sta sopra di lui, definiti. Da qui vengono quasi inevitabilmente il cinismo e la violenza con cui si manipola tutto in funzione del potere nostro o di chi ci paga. Questo cinismo viene spesso scambiato per realismo. Ma è più realistico il realizzabile (secondo un’immagine ridotta che noi ci facciamo della realtà) o perseguire la grandezza del nostro desiderio umano?
Quindi da dove ripartire? La risposta a questa domanda è legata alla possibilità di un incontro, un incontro con persone così profondamente ed umanamente compiute, da generare in noi lo struggimento dell’imitazione, l’energia di una sequela e la speranza di un compimento maturo della nostra persona. Abbiamo conosciuto Suor Lucia e Suor Annamaria, e Padre Bebber, le loro storie e la loro opera: ci ha colpito in loro un modo di lavorare che esprime totalmente la loro personalità ed insieme “adeguato” alla grandezza della loro vocazione. Non perdete l’occasione di incontrarli.
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Salute e/è carità: incontro con suor Lucia Mossucca (Opera Cottolengo), suor Annamaria Villa (Opera Francescana) e padre Virginio Bebber (responsabile Aris). Al Meeting di Rimini, domenica 18 agosto ore 17