Solo una percentuale molto ridotta dei 170 posti di Specialità di Radioterapia disponibili in tutta Italia è stata finora assegnata per l’anno accademico che inizierà a novembre. Eppure, l’impiego della radioterapia come trattamento nei malati oncologici è in crescita, perché i numeri ci dicono che sono oltre 200.000 gli italiani che ogni anno devono essere sottoposti a questo tipo di terapia. L’Oncologia radioterapica, infatti, è impiegata in più del 60% dei malati di tumore e risulta curativa in oltre il 40% dei casi. E, insieme alla Chirurgia oncologica e all’Oncologia medica, rappresenta oggi una delle tre principali discipline che trattano le neoplasie. Abbiamo intervistato la professoressa Sara Ramella, direttore dell’Unità operativa complessa di Radioterapia oncologica della Fondazione Policlinico Universitario Campus Bio-Medico per capire con lei cosa succede.
Professoressa, i medici che scelgono di specializzarsi in radioterapia sono sempre meno. Che succede?
Uno dei punti fondamentali è la scarsa conoscenza della disciplina, sia a livello universitario che di opinione pubblica. La radioterapia oncologica è ancora poco conosciuta: durante gli anni di medicina le ore dedicate alla materia sono poche rispetto ad altre e in molti casi viene percepita come “figlia” dell’oncologia. In realtà, si tratta di discipline diverse che lavorano per lo stesso obiettivo: curare il malato oncologico.
Discipline differenti ma che lavorano in stretta sinergia. È così?
Direi strettissima sinergia. Quando si ha a che fare con un paziente oncologico, la chiave è la multidisciplinarietà, tant’è che noi radioncologi al Policlinico Campus Bio-Medico partecipiamo a 13 tumor board, ovvero a incontri tra specialisti diversi che si confrontano per offrire la migliore strategia di cura alla persona malata di quella specifica forma di tumore. Ovviamente la radioterapia è inclusa in tutti i PDTA (Percorsi Diagnostici Terapeutici Assistenziali) aziendali e regionali perché contribuisce in ogni fase di malattia – iniziale, avanzata o anche metastatica – al miglioramento della “quantità” e qualità di vita dei pazienti.
In questi gruppi, chi decide il trattamento?
È una decisione collegiale che parte dalla presentazione del quadro clinico del paziente di cui si discute, valuta tutte le sue caratteristiche e quelle della malattia in questione per arrivare a proporre la terapia più adeguata. Questo perché magari la persona è anziana e cardiopatica, o con altri problemi clinici, quindi non il candidato più adatto per cure troppo invasive. Qui entra in gioco il lavoro di squadra, che richiede di esplorare vie diverse per individuare la corretta offerta terapeutica. È un modo di fare medicina personalizzata e di offrire alla persona cure integrate.
Dal suo punto di vista, cosa si può fare per cambiare la percezione dell’opinione pubblica?
Per prima cosa è indispensabile che alla cittadinanza venga offerta la possibilità di conoscere le opportunità terapeutiche di questa branca medica. La radioterapia ha subito un’evoluzione tecnologica che ci ha fatto fare un salto di qualità così rilevante che oggi siamo curativi in molti quadri di malattia inimmaginabili fino a qualche anno fa. Pensiamo all’intelligenza artificiale applicata alle nostre macchine o alla possibilità di erogare questi trattamenti insieme ai farmaci, perché sono sempre più sicuri. Oggi possiamo erogare la quantità di radiazioni giusta al tumore nel punto esatto in cui si trova, senza coinvolgere gli organi che stanno intorno. Questo consente di prevedere dosi maggiori in grado, dunque, di curare di più.
Ci sono neoplasie dove la radioterapia è più indicata rispetto ad altri trattamenti?
Tutto dipende dal paziente e da una multifattorialità, ma senz’altro oggi la radioterapia può essere in molti casi ablativa e, quindi, sostituirsi all’intervento chirurgico come terapia per la rimozione totale del tumore. Questo accanto al ruolo già conosciuto in precedenza di trattamento pre o post chirurgico oppure palliativo, ovvero per togliere sintomi come dolore o sanguinamento. Per il tumore alla prostata, fare un intervento chirurgico o un trattamento radioterapico offre gli stessi risultati sul lungo periodo in termini di risultati di sopravvivenza. Per i tumori testa-collo, ginecologici, del polmone, del retto, tra gli esempi che mi vengono in mente al momento, l’integrazione tra radio e chemioterapia è curativa in una larga percentuale di casi, tanto più oggi in associazione ai nuovi farmaci come l’immunoterapia o la terapia a bersaglio molecolare.
Perché un medico dovrebbe scegliere di specializzarsi in radioterapia?
La radioterapia è una scienza innovativa e dinamica, con un respiro internazionale enorme, che ti espone a innovazioni tecnologiche mantenendo la centralità della persona. Al Policlinico Campus Bio-Medico abbiamo inserito all’interno delle nostre macchine una frase: “Tutta la tecnologia, tutta la scienza, tutto il nostro impegno sono per te”, che i pazienti leggono quando entrano nella macchina per sottoporsi al trattamento. Essere radioncologi significa ricordarsi che la persona è sempre al centro, e che la tecnologia è solo lo strumento più bello che possiamo offrire per migliorare la sua vita.
Tecnologia applicata alla persona? In linea, appunto, con “la Scienza per l’uomo” che rappresenta la missione del vostro Policlinico
È proprio così, è quello il principio ispiratore che ci guida sempre, soprattutto quando parliamo di patologie così importanti e che impattano l’immaginario collettivo in modo così forte. Tutto deve essere orientato non a curare la malattia, ma la persona malata, che è quella che guardiamo negli occhi quando offriamo la nostra terapia. In quest’ottica, tutte le tecnologie più moderne della radioterapia – come la Stereotassia, la Radioterapia Guidata dalle Immagini, le Tecniche Volumetriche – contribuiscono a dare il miglior risultato oncologico.
E cos’altro si può prevedere per il benessere di chi si si sottopone alla radioterapia?
Occorre ricordare che a volte le persone possono percepire disagio anche per aspetti molto più semplici. Per questo ci siamo dotati della tecnologia tattoo-free, che permette di erogare trattamenti radioterapici senza utilizzare i referee cutanei, piccoli tatuaggi che fungono da riferimenti per garantire il corretto posizionamento del paziente in ogni seduta. Sono puntini indelebili, come i tatuaggi diffusi per motivi estetici, e pur avendo le dimensioni di un neo, possono influire – anche dopo la fine del trattamento – sulla qualità di vita dei pazienti, che possono percepirli come uno stigma o viverli come un ricordo indelebile del periodo di malattia che hanno affrontato.
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