L’uscita dal lockdown sta mostrando tutte le debolezze della società italiana. Una gravissima, a quel che intendo da non economista: la scarsissima capitalizzazione di tantissime piccole imprese, senza riserve proprie per far fronte anche a pochi mesi di difficoltà, perché strutturate per lavorare sull’indebitamento bancario e sul cash dell’attività. Poiché il secondo, gli incassi correnti, rende possibile il primo, lo scenario è quello del default. Questo spiega l’angoscia delle richieste di riaprire, di tornare al lavoro, anche se gli studi epidemiologici per alcuni settori come l’intrattenimento, dalla discoteca alle spiagge, ci ammoniscono dei rischi altissimi di far ripartire queste attività; un rischio micidiale perché sarebbe pagato non solo in decine di migliaia di morti, ma con il colpo finale alla riapertura economica del Paese. La tempesta perfetta da cui è impossibile vedere scampo, se accadesse.
Allora che fare? Un modo forse ci sarebbe. Rassegnarsi in modo sostenibile per “tutte” le persone coinvolte in talune attività palesemente a rischio di riattivare il contagio, a non aprire per sei mesi o un anno. Anche perché vorrei immaginare chi andrà in discoteca a sudarsi addosso o in spiaggia con il kit di distanziamento i cui pali da infiggere nella sabbia delle spiagge libere sarebbero molto probabilmente le armi improprie di risse diffuse. Sulla balneazione già le prime notizie di cronaca, foto comprese, dalla Liguria alla Sicilia, ci dicono quanto sia difficile far funzionarie le velleitarie misure di sicurezza proposte per il settore. E per le discoteche basti una notizia che viene dall’efficientissimo sistema di monitoraggio del contagio: un ventinovenne risultato positivo al Covid che aveva in una notte girato tre discoteche ha costretto in Sud Corea le autorità a rintracciare e tamponare tutti i frequentatori dei tre locali di quella notte.
Mi chiedo: è possibile sostenere, oltre il rischio di nuovi focolai, costi economici e sociali di questo tipo per far ballare una stagione? Come si faranno i controlli in possibilissimi casi di questo genere, e a spese di chi? Quanto costerà allo Stato far riaprire un settore di questo tipo? Che fare allora?
Alcune cose. E ci vuole la fermezza della lucidità. Tenere in cassa integrazione per tutto il periodo di fermo i dipendenti, inertizzare le spese di mantenimento in essere della struttura delle aziende coinvolte nel blocco, ancorché ferme (ad esempio, sollevando le imprese dai canoni di fitto in modalità di un equo canone da corrispondere ai proprietari delle aree e delle strutture, un modo di spalmare socialmente tra le parti la crisi di redditività), infine sostenendo il reddito personale dei titolari dell’attività fino alla riapertura.
Il punto questo più delicato. Perché incrocia l’Italia reale con quella formale. Si potrebbe sostenere questo reddito personale con una sorta di cassa integrazione guadagni mancati, in un ordine tra il 25% e il 50% del reddito personale dichiarato l’anno precedente, o sulla media degli ultimi tre anni, fino a un massimale stabilito in linea con la cassa integrazione guadagni della media dei lavoratori dipendenti. Insomma, allineare la “sicurezza” esistenziale (tante volte rinfacciata dalla demagogia dell’invidia sociale ai percettori di reddito “fisso”) alla media di un lavoratore dipendente in cassa integrazione.
Sarebbe un modo emergenziale di garantire un minimo esistenziale in modo equo ai settori produttivi più impediti a una riapertura in sicurezza a breve. Senza rischiare quel che non possiamo rischiare.