Caro direttore,
nel suo approfondito e interessante editoriale (“Sanità, l’essenziale non è scontato”), il professor Carlo Zocchetti dà uno sguardo alla situazione sanitaria nazionale italiana alla luce della pandemia del Covid che ci ha colpiti tutti chiedendosi: “Cosa deve garantire un servizio sanitario ai suoi cittadini?”. Nel corso dell’articolo si auspica giustamente un miglioramento e un aumento dei fondi dei Livelli essenziali di assistenza (i Lea) i quali però comprendono un po’ tutto, dalle malattie infettive e parassitarie ai programmi vaccinali; dalla tutela della salute nei luoghi di lavoro; dalla promozione di stili di vita sani; dall’assistenza termale al trapianto di cellule, organi e tessuti fino ai centri antiveleni. Sperando di venir contraddetto non si trova accenno alla salute e all’assistenza mentale
Le persone sofferenti di disturbi mentali assistite nei Dipartimenti di Salute Mentale in Italia hanno toccato anche la cifra di 800mila all’anno (dati del 2018, nda). “Secondo le stime dell’OMS, tra circa 10 anni, le malattie mentali supereranno quelle cardiovascolari arrivando a posizionarsi al primo posto al mondo. Nonostante questi allarmi e queste cifre impressionanti, la salute mentale in Italia è da sempre considerata una Cenerentola. L’Italia, tra i paesi Ocse, si posiziona al 20esimo posto come numero di psichiatri per 100mila abitanti, al 14esimo come psicologi e come infermieri (sempre dati Oms). E anche anche sul fronte della spesa investita rimaniamo fermi in 20esima posizione. Secondo i dati Ministeriali (relativi al 2015 e 2016) il budget medio nazionale per la salute mentale è del 3,5%, a fronte di stanziamenti in Paesi Europei come Francia, Germania e Regno Unito compresi fra il 10 e il 15%” (fonte quotidianosanità.it).
Il personale che lavora nei servizi di salute mentale italiani (psichiatri, psicologi, assistenti sociali, infermieri, educatori e tecnici della riabilitazione, amministrativi) è di circa 31 mila persone. “Ma lo standard complessivo di personale previsto per Legge (PON Salute Mentale 2000) è di 1 operatore ogni 1.500 abitanti, mentre la media nazionale effettiva è 0,94 (6% in meno). Su 21 Regioni e Province autonome, in 14 si è al di sotto dello standard, specialmente nel centro sud (in 3 aree vi è una carenza del 50% o più del personale, e in 6 Regioni si riscontra una carenza compresa fra il 25 e il 40%)” (dati quotidianosanità.it).
Perché tutto questo? Perché la salute mentale non è considerata degna di attenzione e di cura come ogni altra problematica sanitaria? I motivi sono tanti e di difficile affronto. La malattia mentale innanzitutto non è come un infarto o un tumore, cioè non significa possibilità di morte immediata, quindi, viene da pensare, la cura non è ugualmente urgente. Errore gravissimo. La malattia mentale, anche nei semplici casi di depressione non grave, porta spesso al suicidio; i malati di mente, come si legge sui giornali quasi ogni giorno, possono uccidere, soprattutto in ambito familiare. Ma possono anche venir uccisi, specie quando un familiare obbligato dalle carenze di strutture adeguate e al disastro burocratico che circonda la sanità mentale, non ce la fa più a dover badare a lui 24 ore al giorno. Per non parlare del pericolo che costituiscono. Tutti ricorderanno l’episodio del ghanese che a Milano massacrò tre persone per strada con un piccone perché profondamente malato di mente. Non apriamo il discorso dei clandestini che non hanno alcuna cura medica, tanto meno quella psichiatrica. Adam Kabobo, l’autore del massacro, venne dichiarato sofferente di schizofrenia paranoide.
In parte poi pesa ancora in Italia una visione ideologica figlia del 68, quando si teorizzò la cosiddetta anti psichiatria, che tra le altre cose introdusse in molti ambienti il concetto che la malattia mentale non esistesse neppure.
La legge 180 detta Basaglia dal suo ideatore del 1978, che pose fine alle strutture ospedaliere psichiatriche, nella vulgata comune i “manicomi”, luoghi di detenzione e non di cura, non prevedeva se non come auspicio in pochissime righe l’affidamento dei malati di mente “alle strutture territoriali” che semplicemente allora erano quasi del tutto inesistenti. Basaglia, morto solo due anni dopo il varo della legge, sicuramente si sarebbe occupato di questo aspetto.
Ci sono però testimonianze interessanti che dicono che forse quella legge andava pensata molto più in grande, prevedendo appunto cosa sarebbe successo al momento del “liberi tutti” tanto agognato dalla psichiatria soprattutto di sinistra. Angelo Pezzana che, da radicale, si impegnò in una raccolta di firme per la chiusura dei manicomi dice: «Ero consigliere regionale (in Piemonte, ndr) e finì che dovetti occuparmi solo della 180 per tutto il tempo», racconta. «Vennero da me almeno una decina di famiglie disperate: chiuso il manicomio gli era tornato in casa il figlio o marito o moglie malato psichiatrico, anche violento, e non sapevano che fare, dove mandarlo dove chiedere aiuto». Aggiunge Pezzana. «Chiudere è stato sacrosanto, e per le migliori intenzioni. Però si è guardato soprattutto all’ideologia e si è data poco importanza ai fatti. In questo modo si fecero danni alle persone. Pronti, si chiude, liberi tutti: chi aveva una famiglia dove rifugiarsi meno male, ma tanti altri o rifiutati dalle famiglie o senza parenti vagarono finendo o sotto i treni o giù dai ponti o assiderati d’inverno. Fu una strage silenziosa. Mi rivolsi agli psichiatri della Regione: fate qualcosa, mettete su delle strutture. E in effetti con l’apporto di Dc e Psi vennero create delle strutture di accoglienza, quasi delle pensioni con il sostegno sanitario, qui in Piemonte».
E ancora: “Quelli che sparirono per la rapida chiusura dei manicomi senza che fossero predisposti luoghi e terapie alternativi per ospitare questi malati “liberati”, con pietà e rabbia vennero soprannominati desaparecidos, mutuando il nome dalle vittime fatte sparire dalla crudele dittatura che vigeva allora in Argentina”. «Nel 1985 ci mettemmo a fare la conta dei desaparecidos», dice invece il professor Annibale Crosignani, il massimo collaboratore di Basaglia nella ideazione della legge 180. «Di alcune centinaia, solo nella zona di Torino, non si è più saputo nulla. Il fatto è anche che gli epigoni di Basaglia applicarono in modo talebano – in tal modo accordandosi con i conservatori – la legge 180. Un uso pessimo, ideologico» (testimonianze tratte da “La storia della Legge Basaglia e della malattia mentale in Italia rivisitata da tre grandi psichiatri che vissero quegli anni. Nel 1978 l’avvio di una rivoluzione non finita”, Fondazione Umberto Veronesi Magazine).
In realtà esistevano alcune, poche, strutture sanitarie regionali e provinciali. 40 e più anni dopo il varo della Legge Basaglia i fatti di cronaca ci portano a leggere notizie come questa pubblicata sul Il Fatto Quotidiano del 15 luglio 2021: “Su 536 strutture adibite a ricovero di pazienti sofferenti di disabilità e disagi mentali e psichici, 122 (il 22%) presentavano irregolarità anche gravi. In due strutture di Agrigento e Sassari gli ospiti erano maltrattati e abbandonati a se stessi. Ad Avellino, invece, un ambulatorio di salute mentale è stato sequestrato perché non aveva né requisiti né autorizzazioni. Centinaia di confezioni di ansiolitici scaduti sono state rinvenute in otto strutture, dove i farmaci da buttare erano spesso mischiati con quelli ancora buoni e destinati alle persone in cura. Quasi un centinaio di edifici, poi, erano strutturalmente inadeguati, con spazi insalubri e servizi igienici malfunzionanti e indistinti per sesso. Riscontrati, inoltre, anche piani riabilitativi mancanti, progetti di rieducazione assenti e alimenti mal conservati presso cucine carenti dal punto di vista igienico sanitario”. Esattamente come ai tempi dei manicomi.
Fortunatamente negli ultimi anni, grazie a un fortissimo impegno di associazioni e privati, sono nate molte strutture convenzionate con le istituzioni pubbliche che permettono ospitalità e cure più che adeguate. Ma se non si fossero mossi i privati, la situazione sarebbe drammatica e disastrosa.
Ci sarebbe poi da fare un ampio e approfondito discorso sulla normativa che riguarda la sanità mentale, il cui punto più sconcertante è la dimissione a soli 65 anni da queste comunità di terapia e accoglienza. A quella età non hanno più diritto al ricovero e alle cure. O la famiglia si riprende il malato, o va messo in una Rsa, insieme a normali anziani, nelle quali tranne in pochissimi casi non esiste un reparto per il sofferente mentale. Il motivo è semplice: fino a 65 anni lo stato paga le cure e il ricovero, dopo non lo fa più, la Rsa invece è pagamento. Se non si riesce a ottenere una speciale convenzione, rara, il costo supera anche il migliaio di euro al mese. Si torna cioè a mettere nell’ombra, a nascondere, a negare la malattia mentale, questo grande tabù di una società dove il diverso è un perdente, dove se non contribuisci al successo economico della tua azienda non sei nessuno.
“Nella psichiatria italiana di oggi i servizi di diagnosi e cura sono una dimensione essenziale di ogni strategia terapeutica e assistenziale; ma sono non di rado luoghi infelici strutturalmente, e contrassegnati da quella noncuranza etica e da quella indifferenza che non sempre si differenziano da quelle dominanti nei manicomi” dice il terapeuta e psicologo Eugenio Borgna nella prefazione al libro di Mario Colucci e Pierangelo Di Vittorio, Franco Basaglia, collana 180. Aggiungendo che “gli orrori di molti manicomi non ci sono più, ma la indifferenza, con cui da parte di alcune direzioni sanitarie, e della opinione pubblica, si guarda a quello che avviene nei servizi di psichiatria ospedaliera, continua a essere grande”.