Sono passati poco più di 32 anni esatti dal duplice omicidio che sconvolse la quiete di Lamezia Terme e costò la vita al sovrintendente della Polizia di Stato Salvatore Aversa e alla moglie Lucia Precenzano: vittime di un gioco di potere della ‘ndrangheta – da tempo sotto la lente d’ingrandimento del poliziotto – e poi nuovamente vittime di un sistema giudiziario che ci ha messo quasi 20 anni ad individuare i colpevoli. Il caso, come sempre capita quando c’entrano le mafie, è intricato e complicato e sarà protagonista della diretta di questa sera del programma ‘Cose Nostre‘ condotto su Rai 1 da Emilia Brandi nel corso del quale verranno intervistati il figlio di Salvatore Aversa, Walter, il collega Antonino Surace e il giornalista Gianfranco Manfredi, a vario titolo protagonisti della vicenda.
Prima di arrivare all’omicidio vero e proprio occorre fare un passo indietro al contesto in cui il sovrintendente si trovava in quel difficile 1992: da poco, infatti, erano stati uccisi due netturbini, Francesco Tremonte e Pasquale Cristiano, e come ha ricordato lo scorso anno il già citato Surace ai microfoni di Lamettino.it- all’epoca dirigente del Commissariato di Polizia di Lamezia Terme – si era aperta una stagione in cui “davano la caccia ai poliziotti“. Salvatore Aversa, che da sempre aveva voluto combattere contro le mafie, decise di seguire personalmente l’indagine sulla morte dei netturbini: una scelta che, forse, gli è costata la vita.
Le prime indagini sull’omicidio di Salvatore Aversa: la testimone chiave Rosetta Cerminara
Così, tra un’indagine e l’altra, arriviamo alla serata del 4 gennaio di quel 1992 quando alla caserma di Lamezia arrivò la segnalazione di una sparatoria in via dei Campioni: nessuno si sarebbe immaginato che le vittime erano nientemeno che Salvatore Aversa e Lucia Precenzano, il primo trovato morto con la testa appoggiata sul volante della sua auto, ancora accesa; la seconda esanime a terra, trasportata (purtroppo inutilmente) d’urgenza in ospedale. Contro i coniugi vennero sparati 15 colpi di pistola in quella che oggi sembra chiaramente un’esecuzione di stampo mafioso.
All’epoca, però, le indagini presero una direzione diversa e dopo un iniziale coinvolgimento dello stesso Surace che aveva chiesto il trasferimento in Calabria, fu estromesso perché – racconta – “le indagini erano già chiuse con quelle scemenze di quella là”. Il riferimento è alle testimonianze di Rosetta Cerminara che accusò Giuseppe Rizzardi e Renato Molinaro, processati ed incarcerati per l’omicidio di Salvatore Aversa nell’arco di pochi anni, pur essendosi sempre detti del tutto innocenti.
La seconda svolta: Cerminara inattendibile e l’arresto del boss Giampà
Ora, fermandoci qui la storia di Salvatore Aversa potrebbe essere considerata a ‘lieto fine’, ma ci tocca ora fare un passo avanti fino al 2004, quando in un nuovo processo si è definita come inattendibile la testimonianza di Cerminara e i due – a questo punto presunti – colpevoli sono stati scarcerati: Molinaro è morto in carcere a causa dalla droga, mentre a Rizzardi è stato riconosciuto un risarcimento da 200mila euro. Il caso, quindi, si riaprì con un sonoro nulla di fatto, un’indagine che si era affidata esclusivamente alle parole dell’inattendibile testimone e, soprattutto, tanti tanti dubbi sugli autori e i motivi della morte di Salvatore Aversa.
Nonostante i dubbi, nel 2010 ci fu la seconda svolta nelle indagini, con l’arresto del boss della ‘ndrangheta Francesco Giampà – condannato a 30 anni – e dei due scagnozzi ed esecutori materiali dell’omicidio di Salvatore Aversa Stefano Speciale e Giuseppe Chirico, entrambi reo confessi e condannati a 10 e 8 anni in quanto collaboratori di giustizia. A distanza di tutti questi anni il figlio è certo solamente di una cosa: “Mio padre avrebbe meritato di più“, spiega ad Ansa, precisando che “cionondimento, noi familiari accettiamo con serenità l’epilogo giudiziario cui, in maniera sia pure tardiva, si è giunti”.