Fra le tracce proposte dal Miur per la prima prova della Maturità 2023, Tipologia A, analisi del testo, anche “Alla nuova luna” di Salvatore Quasimodo. Il ministero dell’istruzione ha voluto omaggiare il poeta siciliano, che non compariva agli esami di Stato dal 2014, consigliando agli studenti una delle sue poesie più celebri, che racconta l’avventura dell’uomo nello spazio. 



SVOLGIMENTO TRACCIA A1 – Poesia “Alla nuova luna” di Salvatore Quasimodo

COMPRENSIONE E ANALISI

La poesia Alla nuova luna di Quasimodo, pubblicata nel 1958 e facente parte della raccolta La terra impareggiabile, è formata da due strofe, di quattro e nove versi, che intessono un dialogo, un confronto, tra la creazione divina del mondo e quella umana del primo satellite, lo Sputnik I, lanciato nello spazio nel 1957. Quasimodo costruisce la sua poesia come una sorta di preghiera, iniziando con la formula biblica “In principio Dio creò” e chiudendo con il liturgico “Amen”, andando a delineare e a intrecciare i due tempi in cui il testo si svolge: il passato in cui è racchiuso l’origine di tutto, e il presente della sua contemporaneità.



INTERPRETAZIONE

Quasimodo non è il primo autore a costruire un testo sulla falsa riga della preghiera: mi viene in mente, infatti, una poesia di Petrarca, Padre del Ciel, in cui il poeta chiede perdono al suo Creatore per il suo “non degno affanno” e di orientare nuovamente i suoi pensieri “vaghi a miglior luogo”. Al contrario di Petrarca però, che ha chiara la sua fragilità e quindi torna a chiedere aiuto a Dio, Quasimodo nella sua preghiera usa un tono diverso, ironico e quasi di sfida. L’uomo descritto dal poeta, nonostante sia ancora cosciente di essere fatto a immagine e somiglianza di Dio, è lontano dal suo Creatore “miliardi di anni” e sembra non esserci più un contatto se non in opposizione. In entrambe le strofe infatti emergono, potenti, le ripetizioni dei due elementi portanti della poesia: il cielo e i luminari, creati prima da Dio e poi dall’uomo. Ma se Dio, in quanto origine di tutto, crea il sole, la luna e le stelle e, dopo essersene rallegrato perché “era cosa buona”, si riposa, l’uomo, con la sua intelligenza laica (termine isolato proprio per sottolineare la distanza abissale che si genera tra Creatore e creatura), non si lascia nemmeno lo spazio per contemplare ciò che ha creato. Quasimodo, infatti, nella seconda strofa sottolinea come l’uomo avanzi in quello che viene chiamato progresso, “senza mai riposare”, senza quindi chiedersi se ciò che crea è cosa buona, e soprattutto senza la cosa più importante, ossia il “timore”.



Da questi versi emerge l’immagine di un uomo che è così audace da sentirsi in grado di sfidare Dio, di eguagliarlo creando a sua volta dei luminari. Ma, chi è affezionato alle parole e al loro significato profondo, sa bene che l’audacia, ossia quel coraggio sfrontato e senza timore di cui parla Quasimodo, è, in latino, vox media, e se utilizzata e indirizzata male può portare addirittura alla morte, come insegna Virgilio nella sua Eneide. Allora è forse sbagliato cercare, attraverso gli stumenti umani che l’uomo ha, come la scienza, l’arte, la poesia, di arrivare a imitare Dio? Occorre forse limitare il desiderio dell’uomo di andare oltre, di scoprire di più, di conquistare il mondo e lo spazio?

Dopotutto l’uomo da sempre si muove perché ha sete e amore di conoscenza, e credo che il nocciolo della questione stia proprio qui. Ho sempre trovato molto interessante il modo in cui nel Purgatorio dantesco, Virglio spiega a Dante il criterio con cui vengono disposte le pene: tutto parte infatti dall’amore. Persino il peccato è amore, perché l’uomo è talmente fatto per amare e per conoscere che talvolta ama troppo, o troppo poco, o dirige il suo amore verso “malo obietto”. Ed è proprio qui, nell’essere così audaci da non sapersi più fermare, nel rendere l’amore per la conoscenza un diritto e un possesso che eguaglia l’uomo a Dio, che si viene a formare la frattura descritta bene da Quasimodo nella sua poesia, perché come dice Dante, quando l’amore “al mal si torce […] contra ’l fattore adovra sua fattura”.

Che fare quindi? Forse occorre imparare nuovamente a fermarsi, a lasciare il tempo alle cose senza avere la pretesa di fare tutto sostituendoci a Dio. Era questa l’intuizione che, una poetessa a me cara, Mariangela Gualtieri, aveva avuto durante il periodo del Covid, proprio nel momento in cui abbiamo tutti sperimentato la fallibilità della folle corsa al successo e al progresso intrapresa dall’uomo. In una sua poesia dal titolo emblematico Nove marzo duemilaventi,  Mariangela esprime la necessità di tornare a fermarsi: “Questo ti voglio dire / ci dovevamo fermare. / Lo sapevamo. Lo sentivamo tutti/ ch’era troppo furioso/ il nostro fare”. Solo arrestando la sua corsa l’uomo potrà infatti tornare a stupirsi del mondo attorno a lui, riconoscendolo come dono creato e non come proprio possesso, come scrive Wislawa Szymborska in Disattenzione, poesia in cui lei stessa chiede scusa al mondo per aver smesso di prestare attenzione e di stupirsi di ciò che la circonda, comportandosi come se tutto le fosse dovuto: “Ieri mi sono comportata male nel cosmo./Ho passato tutto il giorno senza fare domanda,/senza stupirmi di niente”.

Elisa Del Testa