Nel 1992, la carriera di Gabriele Salvatores viene arricchita di un Oscar per “Mediterraneo”. Un premio inaspettato, tanto che il regista non ha un discorso pronto: solo 27 secondi sul palco. “C’erano due problemi. Il primo è che non so l’inglese, il secondo che non pensavo di vincere”, racconta al Corriere. Di quel giorno, il regista, ricorda “Diversi momenti, come la faccia di Warren Beatty in prima fila che mi fissava e l’incontro con Zhang Yimou in bagno. Io sono con l’Oscar in mano perché te lo consegnano senza nemmeno una scatola, lui sta sommessamente piangendo; ne è nato un dialogo dove io quasi mi scusavo e lui non capiva; poi lui ha guardato l’Oscar e mi ha detto qualcosa che per fortuna non ho capito”.



Nel backstage, l’abbraccio con Abatantuono, protagonista di quella pellicola ma non soltanto: “Io ormai ero già fidanzato con la sua ex moglie, Rita. Lo raggiungo in una saletta con l’Oscar quando vediamo una porta che si apre e una donna che corre inseguita dalla security; è Rita e io e Diego urliamo insieme: no, no, lasciate passare, è mia moglie, è nostra moglie…”. Con quell’Oscar, spiega Salvatores, ha un legame particolare: “Ho avuto un rapporto strano con quella statuetta. L’Oscar non è un microchip che ti infili in testa e diventi più bravo; quando lo vinci sei esattamente come prima, ma sia gli spettatori sia gli addetti ai lavori si aspettano da te qualcosa di speciale. Però io non volevo entrare in competizione con me stesso, così per un po’ di tempo l’ho tenuto in bagno, poi in ufficio, adesso ci ho fatto pace e fa da reggi-libri a una serie di libri sul cinema”.



Napoli e Diego Abatantuono

Gabriele Salvatores ha origini partenopee, le stesse che ha sempre portato con sé nonostante una vita a Milano: “Napoli mi ha insegnato la sua grande verità, saper ridere delle disgrazie, la capacità di unire tragedia e commedia che ha alimentato il mio modo di essere e il mio cinema. Un’altra lezione è quel senso molto greco, antico, di aspettare la fortuna, di affidarsi a quel che succede: quel che sarà, sarà”. Nonostante il legame imprescindibile con Napoli, Milano ha accolto il regista – allora bambino – e lo ha reso un uomo: “È una città che mi ha accolto e mi ha permesso di essere quello che sono, anche “calcisticamente”. Io ovviamente tifavo Napoli, ma a furia di mazzate — vere, fisiche — i compagni di classe mi costrinsero a scegliere una delle due squadre di Milano. Decisi di tifare Inter perché nella maglia c’era l’azzurro del Napoli”.



Tornando a parlare di cinema e carriera al Corriere, ma in fondo anche di vita privata, Salvatores racconta il rapporto con Diego Abatantuono, da sempre protagonista dei suoi film: “È più di un amico, è un parente. Questo ricordo sintetizza più di ogni altro il nostro rapporto. Una volta, eravamo a Lucca, e portavo a scuola Marta — sua figlia, avuta da Rita l’ex moglie diventata mia compagna — che andava in prima elementare. Scendevamo dai tornanti, lei era assorta. Dopo un paio di curve mi fa: “Gabriele, che cosa vuol dire frocio?”. No, guarda, allora, ti spiego: frocio è una parolaccia, è un insulto. Tu puoi dire gay, omosessuale… Si tratta di uomini a cui piacciono altri uomini, è amore ed è rispettabile. Altri tre tornanti e Marta: “Gabriele, ma a te la mamma piace?”. E certo che mi piace, mi piace molto, ci sto insieme. “E allora perché papà dice che sei frocio?””.