La nuova vocazione nazionale della linea leghista autorizza l’irriguardoso commento vernacolare: “Tu vuo’ fa’ l’americano”, sulla visita di Salvini a Washington e i suoi commenti a caldo. Come spesso capita col leader leghista, infatti, i moventi delle sue prese di posizione e delle sue dichiarazioni sono reali se non condivisibili, ma le forme diventano quanto meno colorite se non troppo colorite. E giustificano lo sfottò partenopeo.
Cos’ha detto, in sostanza, Salvini a Washington? Che intende ispirare l’azione della politica economica del Governo – che non si schermisce più a considerare “suo” perché i dati delle europee glielo permettono nonostante i numeri reali delle Camere attualmente insediate – alla linea Trump. Quindi vuol dare al Paese quello shock fiscale che si chiama “flat tax” e che in verità negli Stati Uniti venne usato massicciamente per la prima volta dal presidente Reagan e fu efficacissimo dando al stura a quel periodo di crescita galoppante e di consumismo sfrenato passato alla storia come “edonismo reaganiano”.
Naturalmente, però, Salvini fa i conti senza l’oste: l’economia americana è una formidabile macchina da guerra, la ricchezza naturale e sociale di quel Paese non ha eguali nel mondo da mai, e le sue reazioni alle misure di politica economica non sono mai automaticamente rapportabili ad alcun altro Paese. Però se Salvini voleva trovare una legittimazione occidentale alla sua scelta della flat tax, l’ha sicuramente trovata a Washington.
Rilevante anche la sua piena adesione alla linea anti-Cina trumpiana sull’asserito spionaggio di Huawei e “i rischi degli investimenti predatori della Cina”, la presa di posizione anti-Iran e la sia pur parziale attenuazione dell’atteggiamento filo-Putin, relativa perché il vicepremier ha ripetuto la sua convinzione (e come dargli torto) che sia “meglio trattare con la Russia che regalarla alla potenza della Cina”.
Fin qui le dichiarazioni. Ma la sostanza? Dopo questa passerella americana, Salvini è più forte o più debole di prima – e con lui il Governo giallo-verde – sui due “ring” che contano, quello con l’Unione europea e quello con i mercati? La risposta realista è che Salvini è rimasto esattamente allo stesso punto di prima.
La creatività fiscale – diciamo così – americana nasce dall’assoluta autoreferenzialità economica e monetaria della superpotenza, che da sempre se la canta e se la suona come vuole. Che l’America, sotto tutte le amministrazioni, abbia guardato e guardi con antipatia all’Europa unita e ancor più torvamente all’euro, è altrettanto ovvio e noto. Ma che abbia per questo potuto o saputo fare finora alcunché a favore di questo o quello scenario economico europeo è tutto da dimostrare. Che abbia tifato per la Brexit è noto; che abbia influito sull’esito del referendum britannico è molto improbabile.
Certo, si sa che nella storia italiana le intromissioni americane sono state numerose e pesanti. Tutti gli Anni di piombo andrebbero riletti tenendone conto. Il rischio di un governo a guida Pci è stato probabilmente intercettato senza esclusione di mezzi. La contrapposizione frontale di Andreotti sulla “equivicinanza” alle opposte ragioni del conflitto mediorientale è stata esecrata dalla Casa Bianca e punita in vari modi, così come probabilmente è stato esiziale per Craxi aver schierato i Carabinieri a Sigonella contro i Marines nel caso Abu Omar. E non erano di pura cortesia – non ne avrebbero avuto alcuna ragione – le costanti visite di Di Pietro all’Ambasciata americana nel pieno divampare di Tangentopoli. Lo stesso declino di Berlusconi è stato probabilmente favorito dagli americani che biasimavano lo smaccato filo-rosso che univa Arcore alla dacia di Putin.
Una rapida retrospettiva come questa, per quanto sommaria, basta a far capire che la politica americana ha spesso usato la mano pesante per orientare le vicende interne italiane. Ma tra questo e sperare che oggi Trump abbia pedine utilizzabili come cavalieri bianchi per sostenere la finanza allegra del Governo giallo-verde – con Salvini che vuole la flat tax e Di Maio il salario minimo – ne corre.
Se un grande fondo d’investimenti americano si presentasse stamattina con 1 miliardo di dollari per comprare l’Alitalia, significherebbe forse qualcosa. Se il più grande di tutti, Blackrock, acquistasse domani in Borsa 10 miliardi di Btp e ne facesse crollare i rendimenti sarebbe un segnale forte. Che non a caso non si è mai verificato. Corporate America ha forti passioni politiche, ma più forti egoismi finanziari: i suoi dollari li mette dove ritiene che rendano, non dove gli dice il Presidente, che infatti non glielo dice proprio, per non vedersi smentire.
Così come non accadde a Renzi, quando andò a fare la sua passerella americana e regalò 600 milioni di euro di inutili provvigioni a JpMorgan sperando non in un’idea geniale del colosso bancario Usa sul Monte dei Paschi, ma in qualche altra contropartita finanziaria e restò a bocca asciutta.
Attenzione: gli americani hanno sempre comandato con i cannoni veri e i dollari promessi. I biglietti verdi ce li hanno dati soltanto quando sono stati arcisicuri di riprenderseli con gli interessi. Non sarà Salvini a cambiare un costume secolare. La Lega e i dollari hanno in comune una sola cosa, il colore verde. Ma in due sfumature assai diverse.