Non si può escludere che la madre di Saman Abbas, Nazia Shaheen, sia stata l’esecutrice della sua uccisione. Lo scrivono nero su bianco i giudici della Corte d’Assise di Reggio Emilia in uno dei passaggi delle oltre 500 pagine di motivazioni della sentenza con la quale, nel dicemente scorso, i genitori e lo zio della 18enne uccisa sono stati condannati in primo grado. Ergastolo al padre Shabbar e alla moglie tuttora latitante in Pakistan, 14 anni di reclusione per il parente Danish Hasnain.



Secondo quanto si legge nel corposo documento, depositato pochi giorni fa, la giovane Saman sarebbe stata assassinata non per il suo rifiuto di sottostare a un matrimonio combinato in patria, ma per impedirle di fuggire ancora una volta e di vivere con il fidanzato, Saqib. Il corpo della ragazza fu ritrovato sepolto in un casolare diroccato a meno di un chilometro dall’abitazione in cui viveva con la famiglia a Novellara, oltre un anno dopo la scomparsa avvenuta la notte tra il 30 aprile e il 1° maggio 2021. I coniugi Abbas, all’indomani della sparizione della figlia, erano partiti alla volta del Paese d’origine e la donna ha fatto perdere le proprie tracce finendo per restare la sola “imputata fantasma” nel processo celebrato in Italia. Suo marito era stato rintracciato e fermato sempre in patria, poi estradato. A Quarto grado si torna sulla vicenda Saman approfondendo proprio la figura materna, data come centrale nella ricostruzione processuale.



La mamma di Saman ancora latitante, potrebbe essere lei l’esecutrice materiale dell’omicidio

Secondo quanto scritto dai giudici, il padre e la madre di Saman avrebbero “letteralmente accompagnato la figlia a morire“, ma non solo. Le loro condotte denoterebbero una freddezza ed un “contegno” che li avrebbe spinti a non fare un passo indietro rispetto al proposito di uccidere. La donna avrebbe bloccato “con un gesto risoluto” il coniuge e si sarebbe allontanata dall’abitazione con la 18enne, uscendo entrambe dal campo visivo della telecamera che ha ripreso l’ultimo avvistamento della giovane ancora in vita,  mentre Shabbar sarebbe apparso “tormentato” senza però intervenire.



Un fatto che, ricostruisce un altro passaggio delle motivazioni della condanna, nonostante il “disorientamento interiore” che traspare dagli atteggiamenti dell’uomo, confermerebbe “plasticamente” la sua piena adesione psicologica al delitto. Questa condotta di non intervento di Shabbar si sarebbe tradotta nell’attesa, poi soddisfatta, che altri portassero a compimento una decisone – quella di condannare a morte la figlia – che anche lui, per i giudici, ha voluto e concorso ad assumere.