Testimone chiave nel processo a carico dei cinque parenti imputati dell’omicidio di Saman Abbas, il fratello minore della vittima avrebbe subito pressioni e minacce dal Pakistan perché non parlasse o ritrattasse le sue dichiarazioni in aula. Il giovane, che puntò il dito contro lo zio Danish Hasnain accusandolo di essere l’esecutore materiale del delitto, avrebbe avuto contatti con alcuni familiari in patria compresa la madre, Nazia Shaheen (l’unica ancora latitante), e questi avrebbero agito nel tentativo di inquinarne la deposizione se non addirittura impedirla.
Secondo quanto riportato dall’Ansa, le indagini avrebbero portato a galla un vero e proprio pressing sul ragazzo da parte di alcuni membri della famiglia e questo si sarebbe verificato anche dopo l’estradizione del padre, Shabbar Abbas, anch’egli imputato per l’uccisione della figlia 18enne e alla sbarra a Reggio Emilia con Hasnain e i cugini di Saman, Ikram Ijaz e Nomanulhaq Nomanulhaq. La Procura di Reggio Emilia avrebbe aperto un fascicolo contro ignoti per chiarire i contorni delle pressioni sul fratello di Saman. Gli inquirenti avrebbero acquisito copia dei messaggi, forniti dallo stesso ragazzo, e dai primi accertamenti emergerebbe il fatto che abbia mantenuto un contatto con la madre. L’udienza in cui sarà sentito è quella del prossimo 27 ottobre.
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L’autopsia sul corpo della 18enne avrebbe permesso ai medici legali di ricostruire il perimetro di un delitto efferato. Nella relazione conclusiva dell’esperta Cristina Cattaneo, del collega anatomopatologo Eugenio Biagio Leone e de genetista forense Roberto Giuffrida emergerebbero alcuni aspetti centrali per l’accertamento delle cause della morte e della dinamica dell’omicidio: “Il corpo era molto compromesso – ha descritto Cattaneo in aula –. L’esumazione è stata complicata dall’incastro della testa e dei piedi dentro due nicchie create nella fossa”.
Secondo l’esito dell’esame sul cadavere, Saman sarebbe morta per “asfissia meccanica dovuta a frattura dell’osso ioide“, probabilmente strozzata, quindi uccisa a mani nude. La 18enne potrebbe aver vissuto un’agonia di circa “8 minuti” e ci sarebbe un elemento che punta all‘ipotesi di un delitto premeditato: la fossa in cui poi sarebbe stata occultata risulterebbe essere stata scavata in sei momenti diversi. Tale dato emergerebbe dalle stratificazioni del terreno rilevate dagli esperti in sede di rilievi durante le fasi del recupero del corpo. Ciò indica che la “tomba” di Saman sarebbe stata realizzata in differenti step nel corso di più giorni o addirittura settimane, comunque prima che la giovane venisse uccisa e in un arco di tempo ritenuto apprezzabile perché di possa ipotizzare la sussistenza dell’aggravante della premeditazione. “Il fatto che il terreno sia ben stratificato determina che questa parte del riempimento si sia in realtà costituita da una serie di 6 eventi che si sono susseguiti nel tempo e che non possono assolutamente essersi depositati in un unico momento“.
La madre di Saman, l’unica dei cinque parenti imputati ancora latitante in patria, avrebbe pressato il figlio minore per impedirgli di rivelare elementi che avrebbero potuto inchiodare la famiglia. Il Corriere della Sera riporta uno stralcio di quelle che sarebbero alcune conversazioni telefoniche tra la donna e il fratello di Saman avvenute, pare, tramite il telefono di una parente in Pakistan: “Figlio mio, non dire nulla ai giudici, quali cose false dici… Non dire nulla a nessuno: la verità è la verità, le falsità sono falsità“. A queste parole, il giovane avrebbe replicato così: “O mi uccido o mando tutti in carcere a vita. Non dico falsità“.