Sono passati 12 anni dalla morte di Eluana Englaro, una storia di dolore e di contrapposizioni violente che l’ideologia ha reso più crude e malvage. Solo le suore che l’hanno curata alimentandola, nel silenzio, le hanno saputo voler bene e hanno pianto sulla sua fine, senza erigerla a vessillo di battaglie in nome di una falsa libertà, o in nome della sacralità della vita, talvolta dimenticando la carità nelle parole e azioni. 12 anni, eppure un tempo infinito, nella percezione e sensibilità comune, se guardiamo oggi alla vicenda simile, ma ben diversa di Samantha D’Incà, la trentenne di Feltre ridotta in coma da un intervento quasi banale – la rottura del femore – a causa di un’infezione, e ricoverata in ospedale senza apparenti speranze di poter recuperare coscienza.
I genitori chiedono che, come Eluana, Samantha venga fatta morire, che sia “staccata la spina”, espressione orribile riferita a una persona, e non sappiamo se davvero ci sia una spina attaccata alla corrente, o semplicemente che la vita di questa giovane come per tutti, sia affidata all’alimentazione, seppur tramite peg. Samantha è in coma da novembre. Gli specialisti che hanno studiato il suo caso ritengono che una terapia in centro specializzato possa aiutarla a riprendere la deglutizione autonoma, e poi, chissà. Perché la scienza non ha risposte certe – come lo vediamo con ansia in questa pandemia che ci ha resi più insicuri e fragili – e nessuno sa che percezione un essere umano possa avere nel limbo di un’assenza protratta nel tempo. Sappiamo però che qualcuno si è risvegliato, dopo anni e anni di sonno profondo, e ha raccontato: Max Tresoldi dopo dieci anni ha detto l’impensabile, ovvero che sentiva e capiva tutto, e non voleva, no avrebbe mai voluto essere costretto a morire.
Che pensa, se pensa, che sente, se sente, Samantha? È giusto discutere della sua vita nelle aule dei tribunali, assistiti da un’associazione che fa dell’eutanasia una lotta e un punto d’orgoglio, come la Luca Coscioni? Davvero appostarsi come falchi al capezzale dei malati gravissimi, a fianco dei loro familiari sconvolti, è un aiuto disinteressato e libero? Quel che manca, a Samantha, sono le suore che hanno curato con amore Eluana, un luogo dove sia accolta e custodita, e questo luogo non c’è, nessuno è disposto a riceverla. Di questo dovrebbe occuparsi il Servizio Sanitario, a questo devono pensare i tribunali.
I medici, il comitato etico dell’Ussl di Belluno e il tribunale della stessa città ritengono di dover aspettare. I suoi parenti hanno fretta di chiudere, e si può comprendere, spesso non si sa reggere il dolore più grade da soli, e si diventa strumenti di azioni giudiziarie con forte connotazione politica. Sappiamo l’aria che tira: al grido di “io sono padrone di me stesso” accetteremo la dolce morte (che termine ipocrita, la morte è un dramma, ed è sempre amara. Può essere dolce se accompagnata e sorretta dalla speranza), così come l’aborto, l’eugenetica per decidere la genetica di un figlio. Non si tratta di giudicare, né di schierarsi, su un crinale così arduo e straziante. Ma di chiedere ad alta voce, questo sì, che la vita e la morte non siano alla mercé di un giudice e del suo sguardo sulla realtà, sulla sua visione del mondo, o in balia del suo istinto o interessi.
Una legge si chiedeva, una legge c’è. E Samantha non ha espresso precise volontà, non per questo si può cambiare la legge o bypassarla. Si può, si deve non lasciare sola una famiglia distrutta e disperata. Lasciarla usare, per fini che vanno ben oltre il caso di Samantha. E si vorrebbe che i cristiani con minor timidezza parlassero, memori di quel “Ci alzeremo in piedi ogni volta che la vita umana viene minacciata…”, di un Papa che da quando è Santo viene sempre più trascurato, Giovanni Paolo II.
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