La sfida l’ha lanciata il popolo in persona appena terminato il funerale di Sammy Basso, dopo aver ascoltato la toccante riflessione sulla sua esistenza che Sammy stesso aveva scritto anni fa. Il popolo non ha gridato il solito “Santo subito”: è andato oltre. Invece dello squarciagola ha scelto il passaparola di chi, quando Dio agisce con segni d’inaspettata bellezza, non può tacere ciò a cui è chiamato: lasciare parlare il proprio cuore. Nessuna provocazione, nessuna fatica a ipotizzarlo, siamo in piena logica della santità della vita: “Tutto quello che ha fatto, l’ha fatto con un solo scopo: aiutare il prossimo. Lo faceva perché andava fatto e perché lo sentiva come una missione. Senza volere mai nulla in cambio, senza cercare nessuna ricompensa” ha detto la mamma, spettatrice prima di una vita vissuta a trecento all’ora, certi giorni senza olio, altri giorni controvento. Nessun guadagno, eccetto uno, l’unico: l’accorgersi che, facendo il bene, stava meglio lui. Stando meglio lui, poi, aiutava gli altri a stare meglio anche loro: è la logica cristallina di Madre Teresa di Calcutta, piccola matita nelle mani di Dio.



Un testamento spirituale che riflette quella che Papa Francesco chiama la “classe media della santità”: “Questa è la santità ‘della porta accanto’, di quelli che vivono vicino a noi e sono un riflesso della presenza di Dio o, se vogliamo usare un’altra espressione, ‘la classe media della santità’” (Gaudete et exultate). Dunque è una provocazione dettata soltanto dal carico d’emozione, dall’eccitazione del cuore, o ci sono davvero i presupposti per iniziarne la causa?



È la Chiesa a decretare il grado di santità di un suo figlio o figlia: resta, però, il fatto che quella di questo ragazzo è stata, a tutti gli effetti, una vita così esemplare da non poterla tacere. Il suo segreto è banale quasi a scriversi. Il mondo è tutto popolato di gente che, ancora viva, scrive la propria autobiografia perché la ritiene interessante, piena di fatti degni di essere raccontati. La maggioranza, invece, è convinta che non valga la pena scriverla perché i fatti sono banali, la vita miserabile. Qui è l’errore, perché non sono quelle banalità o quelle miserie la vera materia del racconto ma il fatto che, malgrado questa insignificanza (e devianza), Dio ha camminato con noi. L’attenzione dovrebbe andare a questo “filo d’oro”, a questa presenza ch’è stata accanto a noi. Tanto più meravigliosa ci apparirà questa personale storia di salvezza quanto più insulso potrà sembrarci il contesto nel quale abbiamo vissuto. Valle a capire tu le logiche del Dio dell’inaspettato.



Parole, quelle di Sammy Basso, scritte nel lontano 2017, sette anni prima della sua morte. Un dato che sorprende e pungola il lettore non distratto: in vita, complice la malattia, Sammy ha sempre calcolato la morte. Che “è la cosa più naturale del mondo. Se lei non ci fosse probabilmente non concluderemo niente nella nostra vita perché, tanto, c’è sempre un domani – parole sue –. La morte, invece, ci fa sapere che non c’è sempre un domani, se vogliamo fare qualcosa, il momento giusto è ‘ora’”.

Mettere in conto la morte nel progettare la propria vita non è da tutti, forse è tipico dei santi coinvolgere questa “sorella” in fase di progettazione. Non calcolarla è ragionare alla maniera del mondo, sarà porgere al mondo l’occasione di riderci dietro un giorno per aver ragionato da mondani: “Gli altri muoiono, ma io non sono un altro, dunque non morirò”. Chi la calcola, invece, mostra d’essere sapiente, perché ci costringe a mettere un confine alla nostra megalomania, ad appuntarci le cose in maniera sensata nell’agenda.

Non serve raccomandazione in Vaticano per diventare santi: Dio, quando decide di mordere un’anima, non sarà poi disposto a mollarla facilmente. Il fatto evidente, nel frattempo, è che abbia vissuto tra di noi un ragazzo capace non di prevedere il suo e nostro futuro, ma di comprendere meglio il presente. Col suo carico di grazia e fatica. Basterebbe per capire ch’è stato un uomo-segnaletica.

 

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